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MONITOR


sab 4 novembre 2017

LA GRANDE COALIZIONE CENTRISTA

Nel 2016 in Spagna. Nel 2017 in Austria, in Olanda, in Gran Bretagna e in Francia, attraverso accordi, inciuci, desistenze, coalizioni, il Grande Centro Moderato occupò ogni luogo del potere locale e nazionale. Nel 2018 accadde lo stesso in Italia. Con la stessa rapidità con cui era emerso, il termine populismo sparì dai titoli di giornale, da ogni discorso pubblico e privato. Tornarono in auge espressioni come “moderazione ed equilibrio”, “prudenza e senso della misura”.

La città vista dall’alto era una marea di luci soffuse. Rotte in dissolvenza. Disgregate.

Faceva caldo, da tempo immemore. Forse l’ultima volta che non ho avuto caldo era a Haßloch. Eppure a Haßloch non credo di esserci mai stato.

Il condizionatore della stanza mugugnava vorticosamente sopra la scrivania, dove giacevano il portatile, un registratore e una pila di vecchi giornali, ammucchiati senza ordine logico. Poi c’erano le bottiglie. Vuote.

L’ultimo bicchiere di whisky in mano, aspettavo che da un momento all’altro venissero a prendermi. Ma non arrivava nessuno, non ancora. Il corpo nudo appoggiato alla finestra. L’insegna della Farmacia, dall’altro lato della strada, proiettava una croce verde lampeggiante che penetrava nel mio costato, ferendomi.

Ricordo la prima volta che la vidi. Cominciai a temerla appena notai le sue forme attraverso il vetro satinato della porta. Entrò, come se lo avesse fatto da sempre. Avvolta in un profumo di rododendro, evitò le sedie di fronte alla mia scrivania e puntò diretta al divano. Il vestito rosso attillato si strizzava in vita a far esplodere i seni, candidi e lattiginosi, su cui si posava una cascata di capelli ramati. Gli occhi verdi come il fondo di una bottiglia erano la promessa di paradisi troppo pericolosi. Vuoi giocare? Non me la sento.
Si presentò come Vera. Mi fece intendere che i preliminari non le interessavano molto e mi disse bruscamente di trovare il Candidato. Di farlo per lei, aggiunse beffarda, mentre mi sorrideva. Come poteva pensare che io fossi in grado di trovare il Candidato, la persona che in quel momento i migliori eserciti pubblici e privati, le agenzie di marketing e i dipartimenti investigativi delle multinazionali stavano cercando? Non era affare mio. Le ricordai la mia tariffa, le dissi che accettavo il caso e aggiunsi bruscamente che poteva andarsene. Avevo da fare. E mi ero già stancato di lei.
Prima di andarsene si avvicinò a firmare l’assegno. Posando le mammelle sulla scrivania, con la bocca a pochi centimetri dalla mia, passò la lingua a umettarsi le labbra e sussurrò qualcosa. Non la ascoltai. Non m’interessava. Mentre usciva, le guardai il culo. Un marmo su cui il Bernini avrebbe scolpito volentieri.
Tutto cominciò nel 2017, credo. In Europa sembrava essere al suo apice la stagione dei populismi. Dal Baltico al Mediterraneo era tutto un florilegio di partiti politici e movimenti di opinione demagogici, che puntavano sulle pulsioni più violente dell’umano. Dal basso, era la reazione di pancia alla peggiore crisi economica del capitale. Dall’alto, la capacità di costruire un popolo sul quale poi esercitare sovranità. Proprio quando sembrava che queste forze reazionarie fossero sul punto di vincere. Prendendo o meno il potere, a seconda delle convenienze. Proprio quando tutti i sondaggi dicevano che almeno in Italia o in Spagna, in Austria o in Olanda, in Gran Bretagna o forse addirittura in Francia, avremmo avuto un governo populista. Tutto si arrestò.
Di fronte alla concreta ipotesi di un Quarto Reich, l’istinto di conservazione della specie dell’umano ebbe il sopravvento. In una serie di elezioni legislative e presidenziali, i Partiti di Centro e le Grosse Coalizioni trionfarono con percentuali mai viste. La maggioranza silenziosa che nelle piazze virtuali ululava contro lo stato delle cose, e si diceva disposta a morire per il cambiamento, qualsiasi cambiamento, nel segreto della cabina elettorale votò moderato.

La Brexit, invece di sparigliare le carte e segnare la disgregazione di Europa, si dimostrò il miglior collante possibile per le pericolanti istituzioni continentali.
Nel 2016 in Spagna. Nel 2017 in Austria, in Olanda, in Gran Bretagna e in Francia, attraverso accordi, inciuci, desistenze, coalizioni, il Grande Centro Moderato occupò ogni luogo del potere locale e nazionale. Nel 2018 accadde lo stesso in Italia. Con la stessa rapidità con cui era emerso, il termine populismo sparì dai titoli di giornale, da ogni discorso pubblico e privato. Tornarono in auge espressioni come “moderazione ed equilibrio”, “prudenza e senso della misura”.
Uscii dall’ufficio e attraversai Piazza Vittorio per andare in banca a incassare l’assegno. Il caldo non accennava a diminuire. Mentre i genitori cercavano ombra e riparo sotto i colonnati sabaudi, il giardino brulicava di bambini in libera uscita. L’indomani in Europa si sarebbe andati al voto, eravamo nel pieno delle Festività Elettorali.
Ero perplesso. Non sapevo da che parte cominciare nella mia ricerca del Candidato. E soprattutto, ancora non capivo perché avrei dovuto cercarlo io. Non riuscivo a togliermi dalla testa la figura magnetica di Vera, e ciò non aiutava la mia ostinata ricerca di uno sprazzo di lucidità. A Haßloch, tutto sarebbe stato diverso. Forse. Cercavo di non lasciarmi sfuggire alcun particolare. Le targhe delle macchine. I vestiti dei passanti, le loro scarpe. I cartelli affissi sui piloni e quelli appiccicati sulle vetrine. I movimenti dietro le finestre che ritenevo furtivi. Le espressioni sul viso che giudicavo sospette.
Ogni cosa, immaginavo, poteva essere un segnale. Ogni cosa, mi dicevo, doveva per forza essere un indizio.

Seduto nel giardino, davanti alla Porta Alchemica, ricevetti la telefonata. Una voce maschile, flebile, lontana, mi chiese se ero contento di avere intascato l’assegno e mi confermò che ero nel posto giusto. Il Candidato si trovava lì, nel cuore del Rione Esquilino. Avevo poche ore di vantaggio sugli altri, ora stava a me trovarlo.

La voce aggiunse qualcosa. Sentii il nome di Vera, o forse lo immaginai solamente.

La comunicazione s’interruppe. Mi alzai dalla panchina, e mentre il sole cominciava il suo lungo addio dietro i tetti dei palazzoni della prima Roma post papalina, m’incamminai verso il Bar Picchio.

Chiunque passi dall’Esquilino, passa al Bar Picchio. Se il Candidato, come mi aveva detto la voce al telefono, si trovava nel quartiere, allora anche lui, o lei, si sarebbero specchiati in quella serie di vetrine kitsch che a una certa ora della notte accrescevano la labirintite indotta dall’alcol a poco prezzo che fluttuava nel locale.

Presi posto su un tavolino di plastica sotto i portici. Accaldato, ordinai subito da bere. Dovevo cancellare il suo volto, dovevo dimenticare il suo culo. Ma, soprattutto, dovevo placare la sete.
Dopo il 2018 fu chiaro che anche nel Parlamento Europeo era necessaria una Grande Coalizione di Centro, a meglio rappresentare quello che stava accadendo negli stati membri. In pochi anni anche le ali estreme, di destra e di sinistra, decisero spontaneamente di convergere all’interno della maggioranza.
Per la prima volta, una mossa del genere non era dovuta a quella strategia machiavellica che tanto esaltava i loro elettori, o a quei puri calcoli di tornaconti personali che tanto disprezzava la loro base. Per tutti, eletti ed elettori, quella confluenza nella Grande Coalizione Moderata sembrava un atto di acuta lungimiranza politica. Forse inevitabile. Di certo necessario. In breve tempo, sembrò la più logica delle conseguenze istituire un Partito Unico.
Capace di accogliere al suo interno le diverse istanze e le difformi rivendicazioni, le discordanti proposte e le differenti opinioni, il Partito Unico si rivelò la soluzione cui tutti avevano lavorato per l’intera vita politica. Pur senza rendersene conto. Da destra a sinistra, a eletti ed elettori sembrò la cosa più naturale del mondo che quelle convinzioni che prima sembravano essere inconciliabili, per cui alcuni di loro avevano combattuto e per le quali i loro padri e nonni avevano dichiarato e subito guerre, fossero in realtà nient’altro che punti di vista. Al massimo poco collimanti.
Desiderosi di supportarsi vicendevolmente e di lavorare insieme per il superiore bene comune, cui solo una politica moderata e di piccoli passi poteva assolvere, tutti i cittadini di Europa con diritto di voto decisero di tesserarsi per il Partito Unico.

Con l’incedere claudicante della notte, il Bar Picchio cominciava a popolarsi della solita teoria di personaggi improbabili. Mentre le donne approfittavano del poco refrigerio offerto dall’oscurità per sbrigare le commissioni, gli uomini si riversavano attratti come un magnete in quell’approdo. I cinesi no, i cinesi si facevano i cazzi loro.
Ai tavoli, dentro e fuori, gli unici discorsi udibili vertevano sulle imminenti elezioni. “Moderazione ed equilibrio”, “prudenza e ponderatezza”, erano le qualità che avremmo certamente trovato nel Candidato. A ben rappresentare le nostre sentite simpatie centriste. Queste stesse persone, accovacciate sulle medesime sedie, fino a pochi anni fa teorizzavano la necessità di campi di concentramento per migranti, di rieducazione per gli invertiti. Invocavano la sovranità nazionale dell’Italia rispetto all’Europa, per non dire del Rione Esquilino rispetto al Rione Monti. Oggi, come tutti, erano campioni di equilibrio e sobrietà.
Uno di loro in particolare, urlatore televisivo di professione contro la casta per conto di uno di questi partiti populisti, insisteva sulla correttezza in sé della scelta del Candidato.

Dal momento stesso in cui il Candidato era scelto, spiegava con una gentilezza di cui solo pochi anni fa nessuno l’avrebbe creduto capace, era legittimato come tale.

Il buon senso non poteva tradire. La moderazione è proprietà ontologicamente infallibile.

Unica eccezione ai discorsi sulle elezioni era l’uomo appoggiato a una colonna, impegnato in una telefonata. Alto. Allampanato. Lo spolverino nero lucido e gli anfibi d’estate e d’inverno, gridava nell’apparecchio parole a caso. Con veemenza. Lo faceva ogni giorno, da che ho memoria. Ma se prima non l’avevo mai considerato, quel giorno mi apparve un chiaro segno. Una pista da seguire.
Una volta che tutti si convinsero che il Partito Unico di centro era la miglior risposta possibile alla crisi che attanagliava il continente, e in molti si chiesero come avevano fatto a non pensarci prima, fu il momento in cui andava stabilita quale legge elettorale fosse più funzionale. Dato che la competizione politica era praticamente scomparsa e tutti erano d’accordo, si pensò a un semplice turnover. Gli eletti restavano in carica per un solo anno e poi lasciavano il posto a chi arrivava dopo di loro, e così via fino a nuove elezioni.
Il sistema si dimostrò fallace. Se non politiche, le divergenze tra gli eletti rimanevano di carattere personale: amicizie, invidie, gelosie. Per cui non era detto che il successore avrebbe seguito esattamente la linea del predecessore. E le riforme politiche, sebbene tutte uguali e volte al mantenimento dello status quo, erano destinate allo stallo.

Allora si passò al sorteggio. Sulla scia delle teorie di due psicologi sociali canadesi, un gruppo di fisici italiani verso la fine degli anni Dieci aveva teorizzato le Promozioni Casuali, e dimostrato che gli avanzamenti accidentali di posizione portavano maggiore beneficio alle aziende rispetto a quelli decisi sulla base di statistiche o intuizioni personali. La loro teoria fu quindi ripresa in ambito politico e si passò al sorteggio degli eletti.
A fare da perno era il noto Diagramma di Cipolla, nei cui quattro riquadri trovano posto “lo stupido” (dannoso per sé e per gli altri), “lo sprovveduto” (dannoso per sé, vantaggioso per gli altri), “il bandito” (vantaggioso per sé e dannoso per gli altri) e “l’intelligente” (vantaggioso per sé e per gli altri). Sorteggiando persone a caso, e seguendo percorsi arborescenti random, la probabilità che “gli intelligenti” tra i sorteggiati promulgassero leggi vantaggiose per loro e per la comunità era più alta rispetto alla media. Non si trattava quindi di creare un’oligarchia, una classe politica di “intelligenti”. Tutt’altro. Né, come infatti dimostravano questi studi, si sarebbe andati verso un maggior numero di “intelligenti” tra gli eletti. A volte sarebbero stati di più. A volte di meno. Il caos era l’unica costante. E il Partito Unico della moderazione e della conservazione sapeva che l’unico modo per governare il caos era essere esso stesso il caos.
Il caldo non accennava a diminuire. Il mal di testa nemmeno. Ero forse al terzo o quarto whisky quando mi sembrò di vederla passare. La riconobbi dal di dietro.

Fasciata in un abito nero, un foulard a fiori a coprirne la rossa criniera, era sorretta per le braccia da due uomini in impermeabile e borsalino. Uno per lato. Per un attimo sembrò che si voltasse a guardarmi, e con i suoi occhi verde smeraldo implorasse il mio aiuto. Poi scomparve dietro un nugolo di cinesi che, indifferenti a ogni Festa Elettorale, ciarlava di funerali cui nessuno avrebbe mai assistito.

Feci per alzarmi e inseguirla, ma mi arresi subito. Come al mio solito.
Improvvisamente fui preso dal panico. Il sospetto che evidentemente aleggiava dentro di me, lasciò spazio al presentimento. E la paura al terrore. Il Candidato avrei potuto essere io, realizzai d’un tratto. Ma non aveva senso. Nulla aveva senso. Se il candidato ero io, allora Vera lo sapeva. Era complice. Ma perché assumermi per cercare me stesso? Mi stavano mettendo alla prova? Lo stavano facendo perché sapevano che a breve sarei andato ad Haßloch, o forse perché ero appena tornato da Haßloch?
Il panico si trasformò in angoscia.

Il ghigno sardonico dell’ex urlatore televisivo, i fastidiosi tic del bottegaio, il sorriso stanco dello studente fuoricorso, le occhiate sfuggenti dello sceneggiatore disoccupato, i pruriti ricorrenti del tassista notturno senza licenza. Mi sembrava che ogni loro movimento fosse una conferma del complotto che si era scatenato intorno a me. A ogni gesto corrispondeva un segno.

Faticavo a respirare. C’era nebbia ovunque. Le facce degli avventori del bar si sovrapponevano l’una con l’altra. In dissolvenza. Le loro parole si trasformavano in orrende litanie, inquisitorie.

Mi fiondai all’interno del locale. Poi nel piccolo bagno, quello dietro le casse e i carrelli delle cicche. Vomitai anche l’anima.
La politica del sorteggio durò per diversi anni. Non ricordo esattamente quanti. Il Partito Unico prosperò felice sulle rovine di Europa. L’economia non migliorava, né alcun indice sembrava poterlo dimostrare. Non si stava bene per nulla. L’alfabetizzazione era sempre più un privilegio di pochi e l’assistenza sanitaria un miraggio. Solo il caldo e la disoccupazione aumentavano vertiginosamente.
Ma questo non rappresentava un problema per le popolazioni del continente. Era lo stato delle cose, e bisognava accettarlo con equilibrata rassegnazione. Nessun salto in avanti verso l’ignoto o nessun ritorno a tempi bui già provati sarebbe risultato preferibile alla situazione attuale. Allora, con la giusta dose di pazienza e sopportazione, bisognava prendere atto che il Partito Unico faceva quello che poteva, cioè poco-nulla, ma che era comunque meglio di qualsiasi altra opzione. O comunque non aveva senso provare alcuna altra opzione.

Un nuovo sistema elettorale, poi, prese il nome di Asimov, dal racconto breve dello scrittore russo. Fu qui che entrò in scena per la prima volta Haßloch.

Municipalità della regione Renano-Palatino, quella piccola cittadina si era dimostrata la sintesi perfetta di tutti i desideri e le aspirazioni del popolo tedesco. Ma non solo. Incredibilmente Haßloch era in grado di anticipare le tendenze e gli orientamenti dell’intera Germania.

Inizialmente utilizzata dalle aziende di marketing e pubblicità, che sottoponeva i suoi abitanti a test per sapere cosa sarebbe piaciuto e cosa meno al resto della popolazione, ad Haßloch cominciarono a interessarsi presto anche i politici. Il Governo tedesco all’epoca della Große Koalition di Angela Merkel, la madre nobile del Partito Unico, ne fece il centro della sperimentazione politica. Poi diversi governi, anche stranieri, anche non eletti democraticamente, ebbero il permesso, dietro lauto compenso versato alle casse tedesche, di condurre i loro esperimenti nella cittadina. Incredibilmente, Haßloch si rivelò essere il centro di gravità del desiderio dell’intera Europa.
Se Haßloch rappresentava un’intera nazione, e poi un intero continente, perché non far sorteggiare a Haßloch un singolo cittadino rappresentativo, e quindi un singolo Elettore? Fu così che nacque la Legge Asimov, che prevedeva l’estrazione a sorte di un unico Elettore destinato a votare la composizione del Governo.
Quando uscii dal bagno provai un senso di estraneità fortissimo. Mi pareva di non essere mai stato in quel bar in vita mia. Mi pareva di non avere mai indossato il mio corpo.

Al bancone ordinai un altro whisky. Intorno a me i discorsi degli avventori vertevano su quanto fosse urgente la moderazione, necessaria la ponderatezza, decisiva la sobrietà.

Avevo il vago sentore che una volta le cose fossero diverse, ma non ero più tanto certo. Senza nemmeno tentare di infilarmi in uno di quei capannelli, ripresi posto su una sedia di plastica sotto i portici, e provai riprendere fiato. Ripensai a Haßloch. Ripensai a Vera.

Decisi di chiamare l’Ispettore Neri. L’unico che avrebbe potuto aiutarmi in una situazione del genere, anche nella notte di vigilia delle Elezioni. Nessuna risposta. Controllai sul telefonino a che ora l’avessi chiamato l’ultima volta. La risposta fu che non l’avevo mai chiamato prima in vita mia. Zero chiamate effettuate, zero ricevute.

Al diavolo l’Ispettore Neri, al diavolo il telefonino. Era da poco passata la mezzanotte quando capii che eravamo vicini alla conclusione di questa storia. E che comunque sarebbe andata, per me non sarebbe finita bene.

Gli elicotteri dell’Esercito Europeo cominciavano a volteggiare in cerchi sempre più stretti sopra i tetti di Piazza Vittorio, escrescenza umbertina nel cuore barocco della Capitale. I furgoni blindati dell’Esercito Europeo iniziarono a convergere attorno al Bar Picchio, bloccando ogni via di fuga. Oramai sdraiato sulla sedia, il cervello in panne, ero incapace di scorgere il Candidato davanti a me. O il Candidato in me.

Quando le Squadre Speciali d’Assalto fecero irruzione nel locale, prelevarono il Candidato e se ne andarono. Il tutto durò meno di un minuto. Ma io non andai con loro. Io ero rimasto seduto sulla sedia di plastica.
Dietro la cortina dei fumogeni era scomparso qualcun altro. Era scomparso l’uomo alto vestito di nero. Fino a un attimo prima era lì in piedi, appoggiato alla colonna, al telefono a urlare parole sconnesse. Nessuno sembrava farci caso, ma a me sembrava evidente. Era lui il Candidato.
Mi diressi di corsa verso l’ufficio. Troppe cose non tornavano. Le luci della città cominciavano a confondersi davanti ai miei occhi.
Poi, a un cittadino di Haßloch venne l’idea più semplice e al contempo più geniale. Se aveva funzionato così bene l’idea di tirare a sorte un unico Elettore che scegliesse il Governo, perché non provare ad avere un unico Candidato che governasse? Non si trattava ovviamente di sorteggiare il Monarca Assoluto, ma semplicemente il primus inter pares all’interno della già meravigliosamente oliata macchina organizzativa e burocratica del Partito Unico. Il suo rappresentante.
Si poteva così dimostrare che davvero il Partito Unico, nel suo immobilismo totale, serviva il bene comune della maggioranza, per non dire la totalità della popolazione. E che uno degli slogan maggiormente in voga durante le Festività Elettorali – “dove gli eletti sono gli elettori” – avesse una sua veridicità. E, soprattutto, certificare ancora una volta che ogni decisione presa ad Haßloch era la decisione più giusta per l’intera Europa. Fu così che si decise che ad Haßloch si sarebbe sorteggiato non più l’Elettore Unico, ma il Candidato Unico del Partito Unico.

Ogni volta, quindi, le Festività Elettorali erano occasione di una caccia al Candidato. Da parte degli elettori, desiderosi di sapere chi avrebbe vinto e felici di perdere i loro soldi nelle sale scommesse e il loro tempo seguendo gli show televisivi di avvicinamento. Da parte delle multinazionali, delle agenzie di pubblicità, dei governi stranieri, amici e nemici, desiderosi di mettere per primi le mani su una così succulenta preda.

La centralità di Haßloch, poi, cominciò a spingere molti curiosi, europei e non, a volersi recare di persona a osservare con i loro occhi la vita di tutti i giorni della cittadina renana. Ansiosi di comprendere, tra una bottega e una chiesa, un appartamento di periferia e un parco pubblico nel centro, quali affascinanti dinamiche regolassero quel luogo incantato. Ma la cosa curiosa è che nessuno sembra mai essere stato ad Haßloch. Nonostante non sia affatto proibito. Chiunque sia convinto di esserci stato, non ne è poi così certo. O conserva ricordi fumosi a proposito del suo soggiorno. Chiunque voglia andarci, per un motivo o per l’altro, rimanda sempre la data della partenza.

Entrato nel portone, salii di tutta fretta le quattro rampe di scale verso l’ufficio. Provai a ragionare, per quel che potevo. L’uomo alto, vestito di nero, che passava le sue giornate a urlare al telefono, aveva evidenti problemi mentali. Non c’erano dubbi. Come poteva essere lui il Candidato? Come poteva la cittadina di Haßloch aver estratto a sorte una persona così disturbata per guidare l’Europa?

Esclusi subito un errore del sistema. Qualcuno nelle infinite maglie dell’amministrazione del Partito Unico se ne sarebbe accorto. E avrebbe rimediato in tempo. Restavano poche altre opzioni. Se il Candidato poteva davvero essere chiunque, anche un pazzo, che senso aveva tutta la procedura di estrazione di Haßloch? Che senso aveva Haßloch? O forse il Candidato doveva essere matto, perché così era facile da indirizzare? Manipolare? Sostituire?
Le domande erano molte. Le risposte meno, e mi piacevano una meno dell’altra.
Mentre ero impegnato in quei ragionamenti, non mi avvidi di due figure, con impermeabile e borsalino, che sostavano in un angolo del pianerottolo. Le mani in tasca.

La notte era al suo apice, il caldo anche. Girai le chiavi nella toppa ed entrai in ufficio.

Uno strano profumo di rododendro impregnava l’ambiente. Mentre il condizionatore della stanza mugugnava vorticosamente, mi diressi verso la credenza e tirai fuori una bottiglia. Mi versai l’ultimo whisky. Avevo paura. Molta paura. Aspettavo che da un momento all’altro venissero a prendermi. Ma non arrivava nessuno. Non ancora.

Mi diressi alla finestra che dominava Piazza Vittorio. Riflessa nel vetro, vidi una figura sdraiata sul divano, illuminata dall’unico fascio di luce della luna che entrava nella stanza. Era Vera. Indossava il vestito nero con cui l’avevo vista camminare poche ore prima davanti al Bar Picchio. Non feci in tempo a distogliere lo sguardo che lei si alzò, si avvicinò, e appoggiandosi alla mia schiena cominciò con molta calma a sbottonarmi la camicia.

La città vista dall’alto era una marea di luci soffuse. Rotte in dissolvenza. Disgregate.

Mentre l’insegna della Farmacia si proiettava lampeggiante sul mio corpo oramai nudo, sentiti una fitta al costato. Una gelida lama era penetrata nel mio fianco. Ferendomi. Prima di perdere i sensi, un cartello stradale attirò la mia attenzione. Su fondo giallo, risaltava luminosa una scritta a caratteri neri: Willkommen in Haßloch.

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