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MONITOR


gio 12 aprile 2018

LA CHIAMAVANO “GOURMET GENTRIFICATION” (PT.1)

Quando il mercato rionale cerca di attrarre turisti e visitatori, eccellenza gastronomica ed esotismo del popolare si mescolano. Diventa oggetto di storytelling, i prezzi cambiano e smette di rivolgersi (solo) alla comunità locale. L'esperienza e la trasformazione del mercato di Testaccio a Roma.

Il mercato rionale sta cambiando volto in molti Paesi occidentali. Si fa “esperienza”, oggetto di storytelling. Si orienta a una clientela più occasionale, benestante, in cerca di prodotti sofisticati. Smette di essere un posto dove i residenti fanno la spesa e diventa un’attrazione turistica da visitare. Non più un polo al servizio del quotidiano di una comunità, ma un set teatrale per un pubblico che vuole combinare l’eccellenza gastronomica all’esotismo del popolare, del genuino, del tipico. E allora il mercato trasforma la sua funzione, e i prezzi. Secondo una ficcante definizione, è la “Gourmet gentrification”.
Nel recente, importante saggio sul turismo Il selfie del mondo, Marco D’Eramo centra la questione:
“I «mercati tipici» sono un altro esempio di backstage che si offre in spettacolo, perché lì i turisti cercano non «il bazar per turisti», ma il luogo in cui i locali vanno davvero a rifornirsi per la loro vita quotidiana. Questi mercatini all’inizio si offrono semplicemente allo sguardo continuando a mantenere il loro carattere “indigeno”, ma a poco a poco cominciano a offrire mercanzie rivolte soprattutto ai visitatori turisti, o semplicemente a impacchettare le stesse derrate ma in confezioni che possano essere acquistate (e regalate) come souvenir, finché diventano mercati interamente turistici”.
D’Eramo parte dall’esempio del Mercado de San Miguel a Madrid ma il discorso si estende con facilità ad altri casi, dal Brixton Market di Londra al Grand Central Market di Los Angeles. E negli ultimi anni Roma ha preso a correre in questa stessa direzione.

Il nuovo mercato di Testaccio a Roma

“Una Roma autentica”. “Punto di ritrovo ideale per tutti i buongustai”. Il sito ufficiale del nuovo mercato coperto di Testaccio (“Il quartiere più verace di Roma”) si rivolge all’esterno. Ritrae i negozianti come concorrenti di un reality e punta ad attrarre visitatori come una proloco.
Il concetto è che la tradizione vada mantenuta e affiancata dal nuovo. Ortofrutta e macellerie ma anche consulenti di interior design e locali dove mangiare arepas venezuelane e bere estratti di mela, limone e pepe nero. E come all’alimentare si aggiungono abbigliamento e modernariato, così alla clientela storica del mercato si aggiunge un flusso nuovo e diverso. A voler fare previsioni sembra una trasversalità destinata a reggere poco, superato il breve periodo.
Nel 2012 il mercato rionale trasloca, a costeggiare via Galvani, dopo quasi dieci anni di lavori, interruzioni per ritrovamenti archeologici, slittamenti. Era il mercato di una grande piazza popolare, piazza Testaccio appunto, dov’era stata collocato negli anni del fascismo.
Il trasloco ha sollevato polemiche e scetticismo. Oggi però la piazza è ariosa, apprezzata dai testaccini, vissuta quasi quanto la storica piazza della socialità del quartiere, S. Maria Liberatrice. In questo domino, al centro di piazza Testaccio è stata spostata dal lungotevere la fontana delle Anfore. La stessa fontana che ottant’anni prima aveva fatto il tragitto opposto, per lasciare spazio al vecchio mercato.
Nello stesso 2012 la zona limitrofa di Ostiense, che condivide con Testaccio uno dei rari pregressi industriali della città, era sede dell’inaugurazione del primo Eataly di Roma. E a meno di un chilometro da lì, c’era e c’è ancora un cantiere aperto, un ventre spalancato: è l’area degli ex Mercati Generali, il maggiore centro all’ingrosso per rifornire i commercianti al dettaglio, dismesso nel 2004.
Da fuori il nuovo mercato sembra un alveare, per le traforature dei pannelli e per le frequenti aperture all’esterno. Affaccia sui padiglioni dell’ex Mattatoio, la chiusura del quale negli anni Settanta originò la gentrification di Testaccio, come ha osservato Irene Ranaldi. Da dentro è troppo pulito per restituire l’idea di un mercato. Un centinaio di ampi box, il colore bianco che prevale ovunque. Si ha piuttosto l’impressione di camminare in un centro commerciale.
Nonostante il rigore del progetto architettonico, con la struttura che si rifà alla forma del quartiere e alcune finezze nella scelta dei materiali, l’offerta del mercato mette insieme concetti in contraddizione (“Format differenti” li chiama il Gambero Rosso). Si ostenta la romanità ma si vendono prodotti caseari dell’appennino campano ed eccellenze della tradizione siciliana. Un commerciante del mercato spiegava tempo fa: “La romanità del mercato con i suoi rumori, profumi e clienti deve esserci, ma va integrata con il nuovo concetto di gastromarket”.
È difficile quantificare e dimostrare quanto il mercato stia escludendo i vecchi clienti, cioè la comunità locale. Così com’è difficile capire, a oggi, se i prezzi delle case e degli esercizi commerciali saranno spinti in alto dalla nuova struttura. Non sono d’aiuto i dati del mercato immobiliare, che a Roma è crollato in modo generalizzato sul finire degli anni Zero e non si è ancora tirato su. Di certo l’esclusione va insieme al concetto di esclusività, con cui il mercato rionale del Duemila si sta distinguendo. E se a firmare gli spuntini è Cristina Bowerman, chef stellata, allora la narrazione dello street-food parla davvero poco di strada.

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