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MONITOR


mar 11 ottobre 2016

UN’ALTRA GLOBALIZZAZIONE È DAVVERO POSSIBILE?

Tra spinte nazionaliste e rivendicazioni autarchiche che si diffondono alla velocità di un clic, la prossima sfida che attende governi e organismi internazionali si chiama «globalizzazione 2.0», evocata da Coeuré della Bce. In teoria «efficace, duratura, equa». E in pratica? La globalizzazione della deglobalizzazione rischia di arrivare assai prima

L’autunno del 2016 lo ricorderemo per gli allarmi sul futuro della globalizzazione (qui il focus de “i Diavoli”) che ormai fonti autorevoli ripetono con frequenza pressoché costante. Fra queste, di recente, il Fondo monetario internazionale che ha diffuso, come ogni anno ad ottobre, il suo “Global financial stability report”, che si propone di analizzare il rischio a breve, medio e lungo termine per la stabilità del sistema finanziario. Quest’ultimo, «diminuito nel breve termine e aumentato nel medio lungo periodo», viene essenzialmente declinato nella combinazione di bassa crescita e tassi (di interesse e di inflazione) rasoterra, segnali di una stagnazione strisciante che sta dando fiato a coloro che incolpano la globalizzazione per quest’esito poco edificante. Il Fondo monetario svolge un’accurata analisi, individuando svariate linee di faglia che premono lungo la ragnatela di relazioni che avvolge il sistema economico e finanziario. Conclude invitando i governi a «politiche più potenti e coordinate per favorire la stabilità». Si appella, dunque, a un rilancio delle politiche transnazionali, proprio mentre buona parte dell’opinione pubblica le giudica responsabili di questa situazione.

Un processo passato in giudicato

Potrebbe apparire come un semplice capitolo della lunga disputa che da svariati decenni agita le relazioni fra i governi e gli istituti internazionali – mai come nella nostra epoca, così numerosi e potenti. E tuttavia si rischierebbe di sottovalutare la questione. Il processo alla globalizzazione, che ormai data diversi anni, e che ha toccato il culmine con la nascita dei vari movimenti no global, è stato già fatto. Anzi: è persino passato in giudicato. Anche i più decisi sostenitori dell’integrazione globale si trovano ad ammettere che – così come è stata vissuta – non va bene e che serve un modo diverso di intenderla. Una sorta di «globalizzazione 2.0», come l’ha chiamata Benoît Coeuré, banchiere centrale della Bce, che in un recente discorso dal titolo assai eloquente (“Rethinking Capital Control and Capital Flows”) ha riassunto in maniera esemplare la sfida che attende gli organismi internazionali e i governi che vorranno intraprenderla.

La crisi della globalizzazione

Prima di approfondire, può essere utile osservare nei numeri perché e come la globalizzazione sia entrata in crisi. Alla bocciatura “morale”, insomma, è seguito un arretramento materiale degli indicatori nei quali di fatto consiste gran parte della globalizzazione: il commercio internazionale e i movimenti transfrontalieri di capitale. Quanto al primo può essere sufficiente osservare un grafico pubblicato poche settimane fa dall’Ocse, che sul tema ha diffuso un report allarmante, nel quale si osserva con chiarezza l’incredibile aumento delle barriere al commercio segnalato dal 2008 in poi. Un tema, quest’ultimo, su quale di recente si sono esercitate anche la Bce e lo stesso Fmi. Quanto al secondo, è sufficiente scorrere le statistiche bancarie della BIS, la Banca dei regolamenti internazionali, che fotografano fra le altre cose l’andamento dei prestiti bancari transfrontalieri. Gli ultimi dati, pubblicati nella quaterly review di settembre, hanno visto un calo su base annua di oltre il 4%, che fa seguito a un lungo periodo di ribassi iniziato all’indomani della crisi del 2008. Se questi sono i numeri, i fatti politici sono ancora più eloquenti. La Brexit, anche per il peso specifico dell’UK, è stata la tempesta perfetta per i profeti della globalizzazione. Ci sono anche le elezioni americane in vista, con un Trump e la sua vocazione isolazionista statunitense: questa rischia di essere la seconda tempesta. Il tutto mentre l’Europa è alle prese con i noti problemi di scarso coordinamento sovranazionale e crescenti spinte nazionaliste.

Deglobalizzare è la soluzione? No, globalizzazione 2.0

Per dirla con le parole di Coeuré, «la crescita della globalizzazione è un fenomeno che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni e che all’indomani della crisi è entrata in stallo». Inoltre, «non è ancora chiaro se i recenti episodi caratterizzino una nuova era di minore integrazione, segnalando l’inizio di un trend di deglobalizzazione, o se sia semplicemente una pausa». Rimane il fatto che gli stessi sostenitori riconoscono che, in presenza di mercati imperfetti e pratiche regolatorie inadeguate, «gli afflussi di capitale alimentano costosi cicli di boom and bust» che finiscono col danneggiare l’economia. La soluzione allora è deglobalizzare? «Credo – risponde Coeuré – che ridurre l’integrazione finanziaria riduca i sintomi, senza però risolvere il problema alla radice. Peggio ancora, il rimedio del protezionismo finanziario, proprio come quello del protezionismo commerciale, genera effetti avversi che riducono la crescita potenziale. Per questa ragione non serve una deglobalizzazione, ma una globalizzazione 2.0». Questa nuova globalizzazione dovrebbe declinarsi lungo tre parole d’ordine: «Efficient, enduring, equitable». Tradotto: efficace, duratura, equa, ovvero le tre E della globalizzazione 2.0. In teoria sembra tutto molto semplice. Avere una globalizzazione finanziaria efficiente vuol dire favorire i flussi di capitale che si indirizzano verso usi produttivi, piuttosto che su strumenti che favoriscono i boom e i bust. Renderla resiliente significa monitorare questi flussi e avere la capacità di modificarli, se necessario. Infine, equità va intesa nel senso di evitare che abbiano effetti distributivi non desiderabili, che finiscano ad esempio con l’aumentare la diseguaglianza. In pratica, tutto il contrario di quanto è avvenuto finora.

Efficient, enduring, equitable: a chi serve la retorica delle tre «e»

Rimane da chiedersi se il fatto che i nostri massimi decisori abbiano raggiunto questa consapevolezza voglia dire pure che siano in grado di fare tutto ciò che è necessario, per citare Mario Draghi. E, soprattutto, se dispongono degli strumenti per riuscire. La retorica delle tre E (efficient, enduring, equitable) può andar bene per i titoli dei giornali, ma rischia di rimanere lettera morta. Soprattutto perché questa globalizzazione 2.0 si fonda su un ruolo rafforzato e raffinato degli organismi internazionali, ossia esattamente il contrario di ciò che la vulgata della deglobalizzazione vuole perseguire. Quest’ultima vuole lasciare, i primi vogliono raddoppiare.
Attorno a questa disputa si tesse la trama sempre più intricata della finanza internazionale, con i suoi problemi irrisolti (finiti per il momento sotto al tappeto), che paradossalmente possono tramutarsi negli acceleratori dell’incendio, finora a bassa intensità, che sta divorando la globalizzazione. Perché prima ancora che siano conclamati, questi problemi contribuiscono ad alimentare quell’insoddisfazione strisciante che solletica, proprio come negli anni Trenta, gli istinti autarchici delle società e che si diffonde ormai alla velocità di un clic lungo strati sempre più ampi di popolazione. La globalizzazione della deglobalizzazione, insomma, rischia di arrivare assai prima della globalizzazione 2.0.
E allora bisogna spiegare che l’immigrazione non è niente in confronto al vero problema: cioè, alla libera circolazione internazionale dei capitali. È questo che genera gli squilibri e le speculazioni, muovendosi in cerca di bassi salari, bassa pressione fiscale e scarsi vincoli contrattuali. Questo è il vero nemico del progresso. Non so darti una risposta, quindi, ma almeno una proposta ce l’ho: lavorare tutti insieme a un labour standard sulla moneta, un sistema che regoli gli scambi e controlli i movimenti di capitale, soprattutto nei Paesi che tendono al dumping. A voi giovani può non piacere…” Wade fa un cenno verso di me. “Ma impeto ed energia devono essere incanalati da argini solidi, per non fare danni o andare dispersi, ragazzo”. Da Keynes: «È la Germania che ha rotto i trattati europei» – Il Tredicesimo piano
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