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MONITOR


sab 30 luglio 2016

GLI OPPOSTI ESTREMISMI CHE CONVIVONO IN TURCHIA

L’Occidente, che ha bisogno della Turchia, terra di passaggio di profughi e risorse energetiche, continuerà a finanziare un governo che inizia a manifestare un preoccupante dispotismo asiatico? O forse lo finanzierà proprio per questa ragione?

Ora che l’Europa riscopre la natura essenzialmente asiatica del sistema politico turco, rimane solo da ricordare che al tempo stesso la Turchia è il Paese a noi più vicino dove un altro estremismo, quello dell’economia euro-occidentale, ha trovato confortevole ospitalità. Non si capisce la Turchia se non si comprende che è insieme il Paese del Pil cresciuto a debito e quello dove il sistema politico, al di là del formalismo giuridico, somiglia di più a quello dell’area centroasiatica o, al limite, della Russia. Dispotismi più o meno celati da una vernice di formalismo democratico.
Non c’è bisogno di scomodare Marx per comprendere che una tale evoluzione trovi nella geografia, che è una delle declinazioni della storia, la sua ragione più autentica. Basta ricordare che la Turchia è essenzialmente una terra di confine fra l’Asia e l’Europa, che il ponte sul Bosforo rappresenta meglio di ogni ragionamento economico.
È del tutto naturale che l’economia di matrice occidentale conviva con una politica asiatica, come se davvero la Turchia altro non sia che l’esperimento più avanzato del modo di produzione occidentale che in tale estremismo rivela la sua natura essenzialmente dispotica. Ciò che in Occidente non può dirsi e che invece nelle contrade che si affacciano sull’Asia rivela la sua più autentica natura.
Non si comprende, dunque, la politica turca, se non si guarda ai suoi fondamentali economici e soprattutto al modo in cui il governo li ha declinati nell’ultimo decennio, durante il quale il paese ha conosciuto un rigoglioso sviluppo, comune a diverse economie emergenti, che adesso però rischia di presentare il conto

IL RAPPORTO OCSE

La fotografia più aggiornata dell’economia turca ce la offre l’Ocse e il suo recento Economi Survey. Leggerlo ci aiuta a capire meglio cosa abbiamo davanti e quale sia il difficile crinale lungo il quale questo Paese deve proseguire il suo cammino, bilanciando le tensioni che dall’opposto estremismo, in esso incarnato, rischiano di spingerlo verso l’uno o l’altro precipizio.
Il primo sguardo dobbiamo dedicarlo alla popolazione, poco più di 77 milioni di persone, dove gli under 15 sono il 23,8%, a fronte di una media Ocse del 18%. Gli over 65, invece, sono l’8,1%, a fronte del doppio, il 16,3% degli altri paesi Ocse. I giovani turchi, perciò, sono assai più che una rimembranza storica: sono la realtà di questo Paese. E tale gioventù si accompagna a una caratteristica costante: l’esuberanza. Tradotta nell’arido linguaggio dei numeri, questa esuberanza connota l’andamento della crescita turca che, aldilà dello scivolone del 2008, ha sempre viaggiato, pure se in maniera caotica, su cifre fra il 4-5% con punte superiori al 10% (vedi grafico 1). Pure se ha smesso di generare boom e bust (cicli di forte espansione e contrazione), scrive l’Ocse, l’economia turca oggi manifesta una preoccupante tendenza all’aumento del deficit estero e un notevole peggioramento della posizione netta degli investimenti. Finisce così per somigliare, pure se in sedicesimo, al Grande Debitore Usa, ossia il luogo dell’estremo Occidente.

PECULIARITÀ TURCHE

Di caratteristico la Turchia ha una bassa produttività che si associa a una scarsa competitività, che – sottolinea l’Ocse – dovrebbe essere aggiustata «riducendo i salari e l’inflazione». Questo, però, è un compito arduo per qualunque governo, e ancora di più per quello turco, specie dopo i torbidi di quest’estate. Il governo ha deciso un ampio piano di riforme strutturali a cominciare da quest’anno, ma al momento l’unica cosa concreta che si è osservata è stata una crescita sostanziosa dei salari minimi, che vengono percepiti da un quarto dei lavoratori turchi, elevati del 30% e ormai arrivati al 90% del livello mediano. Il governo ha deciso di mitigare l’effetto che tale incremento avrà sui costi, sovvenzionando i datori di lavoro fino al 40%. Quale sarà l’impatto di questa decisione sulla contabilità turca, scrive Ocse, «è difficile stimarlo». Sappiamo, però, che nel 2015 la crescita turca è dipesa principalmente dal consumo delle famiglie, e questo dà un senso politico, prima ancora che economico, alla scelta di rafforzarne il potere d’acquisto. Sorprendentemente le famiglie hanno speso di più, forse incoraggiate dalle promesse degli aumenti salariali e degli altrettanto sostanziosi aumenti dei trasferimenti sociali. Anche la crisi dei rifugiati (dal 2011 la Turchia ha accolto 2,7 milioni di siriani) ha stimolato la domanda, «parzialmente finanziata da risorse del governo». Quest’ultimo, perciò si rivela come l’entità più attiva nell’economia. La spesa del governo, per dirne un’altra, ha contribuito di 0,7 punti alla crescita del prodotto, e l’investimento del governo per un altro 0,3. Al contrario «l’investimento privato rimane sottotono». Il governo, perciò ha surrogato i privati, che hanno raffreddato significativamente i loro affari.

IL QUADRO GLOBALE E LE RIPERCUSSIONI ECONOMICHE

Al di là delle questioni interne, è il contesto internazionale che ha avuto effetti avversi sull’economia turca. Le varie crisi regionali, e adesso il tentato golpe, hanno raffreddato l’export e hanno fatto crollare i ricavi del turismo. La svalutazione della lira turca, che in qualche modo ha favorito la competitività, non è basta a rilanciare l’export, che anzi si è contratto in volume dell’1% a fronte di una leggera crescita dell’import. Come conseguenza, il saldo commerciale ha contribuito negativamente alla crescita per 0,3 punti. Alcune circostanze specifiche hanno impedito che questo peggioramento del conto delle merci avesse ripercussioni sul conto corrente della bilancia dei pagamenti, il cui deficit è persino migliorato dal 5,5% del Pil del 2014 al 4,4% del 2015. Si tratta di un livello (il peggiore di un panel di economie emergenti assimilabili) attorno al quale si prevede che l’economia oscillerà sia quest’anno che il prossimo. Di fronte a questo scenario, il governo ha previsto di mantenere una politica espansiva per tutto il 2016, con una spesa pubblica che dovrebbe salire al 42% del Pil per retrocedere al 40 entro il 2018. Questo almeno era l’orientamento prima del tentato golpe.
Sul versante monetario, malgrado l’inflazione sia ancora superiore ai target, la banca centrale ha proseguito nella sua politica di allentamento (una delle forme contemporanee dell’estremismo occidentale) associandole però a politiche macroprudenziali per evitare stress al sistema bancario. Ad esempio, alle banche è stato concesso di provare a ristrutturare per tutto il 2016 i crediti difficili prima di dichiararli non performing. Sofferenti, diremmo noi. Tutto ciò non è, però, servito a mitigare i rischi ai quali è esposta l’economia turca, ancora notevolmente dipendente dai finanziamenti esteri, con una domanda domestica fortemente ancorata alla concessione di crediti bancari, e un’inflazione che sembra immodificabile (vedi grafico 2).
«Questi rischi sono stati perpetuati dalle eccezionali condizioni favorevoli del mercato globale dei capitali», scrive l’Ocse. La Turchia è solo l’ennesimo Paese emergente che rischia una fuga di capitali, qualora dovesse orientarsi al peggio la propensione al rischio degli investitori. Specie considerando che la quota di debito a breve termine sul totale del debito estero è pressoché duplicata – siamo all’incirca al 33% – negli ultimi anni, in un paese dove i fondi necessari a finanziare i deficit di conto corrente e i roll over del debito estero quotano ormai il 25% del Pil. Se a ciò aggiungiamo che la banca centrale ha visto assottigliarsi le riserve, che vengono ritenute basse rispetto al confronto internazionale, si avrà chiaro il contesto di fragilità internazionale nel quale l’economia turca si trova ad operare.

IL PREZZO DELLA STABILITÀ

Lo sviluppo all’occidentale, insomma, è stato pagato a caro prezzo: il prezzo della stabilità monetaria e del debito crescente. Circostanza, quest’ultima, che si è riversata sui privati. Globalmente il settore privato ha cumulato un debito che sfiora il 100% del Pil a fine 2015. La crescita del credito al consumo ha superato il 20% l’anno fra il 2010 e il 2013, costringendo le autorità ad adottare politiche per frenare questa corsa. La conseguenza è che si sono raffreddati i crediti per auto e carte di pagamento, ma non quelli per i mutui, rimasti molto elevati anche in conseguenza dell’esuberante crescita del settore delle costruzioni (che adesso l’Ocse teme possa generare importanti correzioni). Il solito copione che si ripete.
Lato corporate, il debito delle società non finanziarie è cresciuto notevolmente. Sembra basso solo perché lo si confronta con quello di altri Paesi, messi assai peggio. E ciò malgrado il rapporto fra debiti ed equity delle imprese turche supera di parecchio l’unità (anche l’Italia è in questa condizioni), così come lo supera il rapporto fra le passività a breve termine e il totale degli asset. Tradotto: le imprese sono fragili nello stesso modo in cui è fragile il Paese. Se si stacca la spina dei finanziamenti, rischiano di implodere. Anche questo è estremismo occidentale.

E ADESSO CHE SUCCEDE?

Sarà molto interessante osservare cosa si originerà da questa tendenza, una volta che si sarà definitivamente mescolata con l’anima asiatica della Turchia, che ancora attende di entrare nell’Unione europea. L’Occidente, che ha bisogno della Turchia, terra di passaggio di profughi e risorse energetiche, continuerà a finanziare un governo che inizia a manifestare un preoccupante dispotismo asiatico? O forse lo finanzierà proprio per questa ragione? L’Occidente estremo, in fondo, conduce all’Oriente. Non c’è bisogno di scomodare la politica né l’economia per capirlo. Basta osservare un planisfero.

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