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mer 14 giugno 2017

IN GIAPPONE “ABENOMICS” FUNZIONA DAVVERO?

Iniettare contanti nel sistema, introdurre stimoli fiscali e intraprendere riforme strutturali: a cinque anni di distanza, la ricetta di Abe ha dato risultati a metà (i consumi sperati ancora latitano) e mancano interventi seri nel mondo del lavoro. C'è di più: i due principali stimoli dell’Abenomics – le Olimpiadi 2020 e la politica monetaria a briglia sciolta della BoJ – finiranno di sortire i propri effetti steroidizzanti all’inizio del 2020, data in cui “i baby-boomers giapponesi saranno tutti over 75".

A metà maggio 2017 gran parte della stampa internazionale ha dato ampio risalto a un dato decisamente incoraggiante per l’economia giapponese. Dall’ufficio del gabinetto del primo ministro Shinzo Abe erano arrivate le previsioni relative alla crescita del Pil per il primo trimestre del 2017, stimata intorno al 2,2 per cento.

Un incremento che, superando le stime precedenti ferme a +1,7 per cento, portava il segno più nella terza economia del mondo per il quinto trimestre consecutivo: una striscia positiva che in Giappone non si verificava da 11 anni.
Abituati come siamo alla retorica irresistibile del secolo asiatico e a percentuali di crescita di ben altra ampiezza, rischiamo di dimenticarci di una disperata lotta contro il tempo che Tokyo sta combattendo da quasi cinque anni. L’obiettivo: affrancarsi da quella deflazione cronica che dagli anni Novanta ha costretto al palo la fu seconda economia del mondo – già scalzata dalla Cina – affibbiando ai due decenni precedenti l’infausto nomignolo di “Lost Decades”. E farlo prima che sia troppo tardi.

Luci e ombre di Abenomics

La missione impossibile, annunciata dallo stesso Abe all’alba del suo secondo mandato alla guida del Giappone alla fine del 2012, sarebbe iniziata con un piano ambizioso e visionario, non necessariamente nell’accezione più ottimista del termine, soprannominato dalla stampa internazionale “Abenomics”.
Una dottrina economica spregiudicata composta da tre fasi, le cosiddette “tre frecce” nella faretra del primo ministro giapponese: iniettare contanti nel sistema, introdurre stimoli fiscali e intraprendere profonde riforme strutturali. Un mix che, secondo la ratio dietro Abenomics, dovrebbe innescare un circolo virtuoso capace di far aumentare i profitti delle aziende, aumentare i salari, far crescere i consumi. A cinque anni dall’inizio della terapia Abenomics, le prime due frecce sembrano essere andate a segno.
La Bank Of Japan (BoJ) da un lato ha inondato il paese di liquidità, facendo crollare il valore dello yen e, di conseguenza, incentivando le esportazioni dei prodotti made in Japan; dall’altro, ha continuato a comprare in massa i titoli di stato giapponesi, tanto che al momento ne detiene oltre il 42 per cento del totale (e c’è chi dice che più di così non possa fare).
E non solo: lo scorso anno, per la prima volta nella storia dell’istituto, la BoJ ha introdotto dei tassi d’interesse negativi allo -0,1 per cento (cosa significa, qui), costringendo le banche nazionali ad allargare i rubinetti dei prestiti alle compagnie nazionali, già galvanizzate dalla svalutazione dello yen.
Il primo ministro giapponese Shinzo Abe
Nel frattempo, il governo Abe introduceva una serie di pacchetti di stimoli per l’economia nazionale – l’ultimo, dell’agosto 2016, annunciava una spesa record da 265 miliardi di dollari – pigiando sull’acceleratore della spesa pubblica per rivitalizzare le economie locali, sostenere lo sforzo infrastrutturale propedeutico alle Olimpiadi di Tokyo 2020 e rimpolpare il welfare nazionale.
L’azzardo di tali misure, che hanno ingrassato il debito pubblico nazionale portandolo al 200 per cento del Pil (rapporto peggiore tra le economie sviluppate del mondo), secondo Abenomics sarebbe valso la candela a fronte di un aumento dei consumi interni. In Giappone valgono il 60 per cento del Pil nazionale, non se ne può fare a meno. Questi consumi, però, stando agli ultimi dati reali, ancora sembrano latitare.
Ricordate le stime di crescita al 2,2 per cento di cui parlavamo all’inizio dell’articolo? Nemmeno un mese più tardi, i dati reali comunicati sempre dal gabinetto di Abe hanno raccontato una storia molto diversa.

La crescita effettiva del primo trimestre 2017 è stata ridimensionata a +1 per cento, a fronte di una flessione nei consumi ferma al +0,3 per cento. Conseguenza diretta degli stipendi che, nonostante un aumento costante dei profitti per le aziende, ancora rimangono troppo bassi per incentivare il consumo interno.

Le riforme mancanti: occupazione femminile, lavoro nero e “overwork”

La causa principale dello stallo, secondo i detrattori del primo ministro giapponese, risiede nelle mancate “riforme strutturali”, la terza fase di Abenomics, che avrebbero dovuto interessare svariati settori – dall’energia all’agricoltura, dal welfare alle industrie – e in particolare il mondo del lavoro, andando ad affrontare alcune delle questioni chiave dell’economia giapponese.

Fra queste compare l’occupazione femminile, cresciuta fino al 66 per cento nel 2016 (record dal 1968), ma ancora lontana dall’80 per cento di quella maschile. E ancora: la regolarizzazione dei lavoratori “in nero”, con la parificazione dei salari e l’accesso al welfare; lo sradicamento della pratica diffusa degli straordinari, che in Giappone sono la norma, spesso non pagati, un fenomeno di dimensioni enormi. E, infine, una delle sfide fondamentali è quella di spingere le aziende nazionali a redistribuire i profitti incassati in questi anni, ricorrendo magari a sanzioni salate e al “public shaming” per gli esempi negativi più eclatanti.

Nascite sotto il milione e popolazione sempre più vecchia

Come nota il Nikkei Shimbun in un’analisi impietosa dell’Abenomics fino ad ora, “il Giappone ha sorprendentemente poco tempo rimasto per fare queste riforme cruciali”.
I due principali stimoli dell’Abenomics – le Olimpiadi 2020 e la politica monetaria a briglia sciolta della BoJ – secondo il principale quotidiano economico giapponese finiranno di sortire i propri effetti steroidizzanti all’inizio del 2020, data in cui “i baby-boomers giapponesi saranno tutti over 75, portando le spese mediche a una crescita esponenziale”.
Il problema dell’invecchiamento della società giapponese mette ancora più a fuoco quel “punto di non ritorno” assolutamente da scongiurare, la soglia ultima entro cui o Abenomics darà i propri frutti o, in caso contrario, condannerà il paese a un tracollo che si teme fatale.
Quest’anno, per la prima volta negli ultimi cento anni –  da quando si hanno dati sulla natalità in Giappone –  le nascite nel paese si sono fermate sotto la soglia del milione. Un dato che prefigura problemi di dimensioni ciclopiche per quanto riguarda il ricambio della forza lavoro e il welfare giapponese. Secondo le ultime statistiche, un quarto della popolazione ha più di 65 anni; nel 2060, saranno il 40 per cento.
Questo trend presenta chiavi di lettura superficialmente confortanti – come il tasso di disoccupazione al 2,8 per cento, “record degli ultimi vent’anni” – ma che dovrebbe invece evidenziare il tema della mancanza di lavoratori nel mercato giapponese. Una crisi che, rileva Reuters, sta portando le piccole e medie imprese giapponesi a ricorrere sempre di più al lavoro automatizzato.
Robot che incentiveranno la produttività nazionale ma che – fino a prova contraria – si dubita possano contribuire ai consumi necessari a far ripartire una volta per tutte l’economia giapponese.

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