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RECENSIONE


gio 8 febbraio 2018

“FUGGI VIA” È L’IMPERATIVO A HOLLYWOOD

Tre registi diversi per tre pellicole di diverso genere e cifra stilistica, ma accomunate dal captare la medesima inquietudine per una rinnovata ascesa di razzismo e suprematismo nel pieno dell’era trumpiana. Preservazione della razza bianca; costituirsi di gated community che inglobano paranoie xenofobe e securitarie; impunità e sdoganamento politico della violenza razzista, coperta da immunità e connivenza istituzionale: sono tutte allarmanti spie che si riaccendono, a intermittenza, fino a incidere nell’immaginario collettivo e sulle sue relative narrazioni. “Fuggi via” sembra essere il nuovo imperativo nelle rappresentazioni a Hollywood.

Nel buio di un quartiere periferico si propagano le note della canzone Run Rabbit Run. Vengono dall’impianto stereo di una macchina, la stessa da cui esce un individuo con un elmo medievale in testa che si getta su un giovano afroamericano di passaggio e lo rapisce.

Poco tempo dopo, un altro giovane nero, il fotografo Chris Washington, va a trascorrere un fine settimana a casa dei genitori della sua ragazza bianca, Rose Armitage, per presentarsi alla famiglia. Nel giro di poco tempo, il tranquillo week end si trasforma in un vortice di profondo orrore.
Chris scoprirà che gli Armitage, Rose compresa, e tutti gli altri abitanti bianchi del vicinato, sono avvezzi a una pratica a dir poco orrorifica: attraverso l’ipnosi e il trapianto cerebrale, esercitati su corpi di giovani afroamericani, hanno trovato il modo di prolungare le loro vite all’infinito.
L’inquietante operazione criminale si svolge così: un giovane nero – di sesso maschile o femminile a seconda dell’esigenza del cerebro che deve ospitare – viene irretito o catturato; quindi si procede all’ipnosi, per far piombare la coscienza della vittima nell’oblio, e infine al trapianto di cervello, per accogliere nel corpo ospitante il nuovo soggetto – di solito un vecchio o una persona il cui corpo è affetta da qualche malattia – e garantirgli una rinnovata e prolungata esistenza.
Anche per Chris è in serbo lo stesso orripilante destino: un distinto signore del vicinato, affetto da cecità, si è appena aggiudicato il corpo del giovane afroamericano a un’asta, per potere tornare a vedere attraversi gli occhi della futura vittima.
In un incalzare di eventi scanditi da delirio e terrore, l’imperativo per Chris rimarrà soltanto uno: fuggire.
1959: nella tranquilla cittadina di Suburbicon, enclave residenziale della borghesia bianca e xenofoba statunitense, si trasferisce una famiglia di afroamericani.
Il clamore per l’inaccettabile notizia è immediato: il comitato di residenti bianchi si organizza e comincia una protesta, prima silenziosa, poi via via più agitata e irrefrenabile, fino a tirare su una palizzata intorno alla casa dei neri e a presidiarla con intimidazioni che assumono presto la forma di violente minacce.
Nel frattempo all’interno della casa dei Lodge, accanto a quella dei neri appena trasferitisi, si consuma un efferato delitto: durante la notte fanno irruzione nell’appartamento due malavitosi e, dopo aver intimidito e sedato il nucleo familiare – composto da padre, madre, sorella della madre e figlio della coppia –, Rose, la moglie del signor Gardner, perde la vita per un overdose di cloroformio somministratole dai malviventi.
Mentre la protesta dei cittadini bianchi contro i neri divampa e perde il controllo, fino ad arrivare al punto di appiccare il fuoco alla casa degli afroamericani, in un incalzare grottesco e delirante degli eventi, si svelerà che in realtà l’efferato delitto ai danni dei Lodge è stato architettato proprio dal capo-famiglia Gardner e dalla sorella gemella della vittima, Margaret, amante del marito e in combutta con lui per liquidare la moglie e fuggire insieme con tutta l’eredità.
Unico testimone è il piccolo Nicky Lodge, figlio di Gardner e Rose, divenuto compagno di giochi del suo vicino afroamericano – il figlio dei neri appena trasferitisi – prima che nella sua vita familiare e cittadina irrompesse la più delirante follia.
Anche per Nicky, come per il Chris della storia precedente, l’imperativo rimane quello di fuggire, il più lontano possibile e nella speranza di riuscire a cavarsela.
La città di Detroit, negli anni ’60, è un polo industriale che attira le masse di cittadini statunitensi in cerca di lavoro.
La stragrande maggioranza di cittadini è composta da afroamericani, mentre l’ormai minoranza bianca, posizionata negli strati più alti e dirigenziali della società, tra cui le forze dell’ordine, comincia a covare risentimenti razzisti per quella che viene assurdamente vissuta come una vera e propria “invasione”.
L’illusione dei neri, che migrano nella parte nordista e civile degli Stati, di procacciarsi un discreto salario e costruirsi un’esistenza dignitosa, sfuma presto in una spirale di discriminazione e violenza senza fine: la polizia bianca perseguita e reprime, perpetrando sui neri abusi d’ogni genere e sorta.

La miccia esplosiva viene accesa nel 1967, nella notte in cui la polizia di Detroit irrompe in un locale frequentato da neri e, con la scusa che il posto non ha una licenza per smerciare alcolici, compie una retata generale. L’operazione avviene sotto gli occhi sconcertati di tutto il quartiere e, in pochi attimi, la protesta dei neri deflagra e diviene rivolta.

Il sindaco di Detroit indice lo stato d’emergenza: la città, messa a ferro e fuoco dai tumulti della comunità afroamericana, subisce la reazione violenta della polizia, coadiuvata dalle truppe della guardia nazionale.
La repressione è brutale, spietata e fuori controllo. I poliziotti bianchi inseguono i rivoltosi e li percuotono. Non solo: i poliziotti bianchi sparano. Il bilancio finale ammonterà a migliaia di fermi e arresti, ma soprattutto a 43 morti.
Tra le vittime spiccano tre afroamericani, freddati a fucilate all’interno di un albergo in cui si erano radunati parecchi giovani, per evadere dall’inferno della città in subbuglio, facendo festa.
Sono i fatti, realmente accaduti, del Motel Algiers.
Il copione è tanto scontato quanto impunito. Tre agenti della polizia di Detroit, attirati da alcuni spari – che si riveleranno esplosi da una semplice scacciacani – irrompono nel Motel alla ricerca di un fantomatico cecchino, che tuttavia non trovano, perché non esiste.
Con alle spalle già una vittima, il primo dei giovani neri freddato nel momento stesso dell’irruzione, e avendo trovato all’interno anche due ragazze bianche in fare amichevole con i neri, gli agenti perdono il controllo.
Dopo aver percosso, intimidito e sottoposto a un folle gioco di minacce – che finisce con un’altra vittima assassinata – gli afroamericani nel vano tentativo di estorcere loro una confessione che non può sussistere, ormai consci della loro operazione criminale, gli agenti promettono di rilasciare i ragazzi a patto che cancellino dalla loro memoria quanto successo.
Tutti i ragazzi assentono e fuggono via. Tutti tranne uno che, scosso e inorridito, ribadisce ai tre poliziotti che sono degli assassini. Freddato a sangue freddo, sarà la terza vittima di quella notte da incubo.
Anche stavolta, l’intoppo nella follia omicida bianca è rappresentato da più testimoni oculari. Tra cui spiccano il cantante Larry, fratello di una delle vittime del Motel, e il vigilante di un negozio Dismukes, accorso sul posto dopo aver sentito gli spari e le urla.

Entrambi, tuttavia, sono neri. Per questo, al termine del processo – conclusosi con l’impunita assoluzione dei tre agenti di polizia dalle accuse di percosse aggravate e omicidio –, l’imperativo per Larry e Dismukes sarà ancora una volta quello di fuggire, dalla lucida e reale follia di quanto accaduto.
Le tre “trame” riassunte sono quelle dei film Get out, Suburbicon e Detroit, rispettivamente diretti da Jordan Peele, George Clooney e Kathryn Bigelow. Ossia un afroamericano, e due bianchi; due uomini e una donna, tutti e tre statunitensi.
Tre registi diversi, anche e soprattutto per la loro poetica e cifra stilistica, ma accomunati dallo stesso paese d’origine, dal loro impiego nell’industria cinematografica hollywoodiana e, in questo caso, dal captare una medesima inquietudine per una rinnovata ascesa del razzismo nel pieno dell’era trumpiana.
Get out è un horror-movie, ma caratterizzato dall’incombere di un’assurda quanto tangibile follia sociale. Suburbicon è un giallo grottesco alla Cohen (che infatti hanno prodotto la pellicola), tuttavia anch’esso centrato su uno snodo narrativo teso a portare a galla la xenofobia diffusa nei cittadini della borghesia bianca americana.
Detroit, infine, è un action-movie ad alta tensione, dai ritmi incalzanti quali sempre hanno scandito le pellicole della Bigelow, che si muove su uno sfondo storico determinato da fatti realmente accaduti, al fine di riportare a galla gli efferati e impuniti delitti commessi dalla polizia durante le rivolte che esplosero a Detroit nel ’67.
Sia pur distanti dal punto di vista dei modi di rappresentazione, i tre film insistono su una stessa inquietudine che la contemporaneità non può più eludere né rimuovere: il revival di razzismi e suprematismi – già presenti e mai davvero attenuatisi nel sostrato politico statunitense – a tal punto manifesto da tornare a incidere sulle esigenze e scelte tematiche della rappresentazione cinematografica e delle serie televisive.

Preservazione della razza (bianca); costituirsi di gated communityche inglobano paranoie xenofobe e securitarie; impunità e sdoganamento politico della violenza razzista, coperta da immunità e connivenza istituzionale: sono tutte allarmanti spie che si riaccendono, a intermittenza e senza soluzione di continuità fino a incidere nell’immaginario collettivo e sulle sue relative narrazioni.

In questi tempi bui – resi ancora più oscuri dai fatti recenti di Macerata in Italia –in cui la “paura dell’altro” regna sovrana e si estende a livello globale, in cui l’imperativo introiettato persino da Hollywood sembra essere diventato di fuggire di fronte a una simile inquietante deriva, l’appello è quello di restare e opporsi, con determinazione, alla “distopia” razzista che si invera ogni giorno, nutrendo opere di finzione che ormai potremmo definire di speculative fiction, cioè rispecchianti un dato non più futuro o immaginario ma tangibile e reale nel sul orrore più nero.

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