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mer 5 ottobre 2016

IL “FRACASO” SOCIALISTA: ULTIMA GUERRA DI SPAGNA

Il Partido Socialista Obrero Español è in coma: Sánchez, l'uomo del «no es no» ha perso l'occasione storica di un "governo di svolta". Avrebbe potuto dare un'altra chance al socialismo iberico e continentale, ma la guerra fratricida interna al partito lo ha costretto alle dimissioni. E adesso che succede? Le opzioni sono due: appoggiare un governo Rajoy (favorendo così Podemos a sinistra) oppure rifiutare il via libera ai popolari e andare a elezioni per la terza volta in un anno.

Era il 1977, la Spagna andava a votare alle prime elezioni democratiche. Dopo oltre quarant’anni di dittatura franchista, il Paese sceglieva l’Unión de Centro Democrático di Adolfo Suarez. All’opposizione c’era il Partido Socialista Obrero Español (PSOE) di Felipe González. Due grandi partiti si contendevano la scena. Dal 1989 in poi l’alternativa al PSOE veniva incarnata dal Partido Popular di José Maria Aznar. È lunga la storia del sistema bipartitico spagnolo, che domina la politica da quasi quarant’anni. Adesso, però, quel modello è in coma. La crisi, gli scandali legati alla corruzione, il desiderio di cambiamento hanno infatti portato due nuove formazioni politiche: Podemos, a sinistra, e Ciudadanos al centro-destra. Con quattro partiti, specialmente in un Paese che deve abituarsi a questa realtà, la ricerca di nuove coalizioni ed equilibri richiede tempo. Da A che punto è la Spagna? — #iDiavoliFocus
5 OTTOBRE 2016 — Se il Pasok greco è clinicamente morto e il Labour britannico soffre, anche il Partido Socialista Obrero Español (PSOE) non se la passa tanto bene. Non sono più gli anni Ottanta, quelli in cui raccoglieva il 48% dei consensi. Il segretario generale Pedro Sánchez, l’uomo del «no es no», colui che alle politiche di giugno ha ottenuto solo il 22%, si è dimesso il primo di ottobre.
Dopo una settimana di guerra interna contro di lui, combattuta dai “baroni” del partito fedelissimi alla presidente andalusa Susana Diaz, Sánchez – detto “El Guapo” – ha ceduto. Estenuato da quasi dodici ore di dramma al consiglio federale socialista di sabato scorso, ha lasciato la scena. È stato schiacciato dalla rivolta interna, inghiottito dai dissidenti del suo stesso partito. Ha capitolato, finendo nello stesso tritacarne di partito dove era stato gettato, salvo poi salvarsi, Jeremy Corbyn in Gran Bretagna. Sánchez, in fondo, non aveva la stessa caratura da leader del suo omologo britannico.
Sánchez ha perso un’occasione, decretando la sua fine politica, ma soprattutto ha de facto negato la chance di un “governo di svolta” al socialismo spagnolo (e a quello europeo).

L’ostruzionismo a oltranza in un Paese paralizzato

La Spagna è da dieci mesi in un pantano politico. Si trova senza un governo eletto, ha il parlamento paralizzato e – se i partiti non si metteranno d’accordo – rischia di andare alle urne per la terza volta in un anno. Dopo il nulla di fatto alle politiche di dicembre 2015 e di giugno 2016, a gestire gli affari correnti del Paese c’è il premier Mariano Rajoy del Partido Popular, che finora non ha ottenuto la maggioranza assoluta (conquistando solo 137 seggi su 350).
Il granitico «no» di Sánchez alla grande coalizione con Rajoy ha allungato i tempi dello psicodramma in salsa spagnola. La guerra fratricida nel PSOE si è fatta sempre più aspra, e alla fine la corrente favorevole al compromesso con il Pp ha potuto architettare (con successo) il grande colpo per fare fuori il segretario, in nome della «governabilità».
L’ultimo fallimento si è consumato alla fine dell’estate, in due tornate. Era il 31 agosto, poi il 2 settembre: diverse le date, ma praticamente identico il copione. I socialisti si sono messi di traverso e hanno bloccato l’investitura di Rajoy come premier. Il Congresso dei Deputati di Madrid gli ha negato la fiducia, grazie all’ostruzionismo a oltranza dei fedelissimi di Sánchez.
Mentre i socialisti bloccavano la sua ascesa, Rajoy, premier dal 2011, ha giocato su una (scontata) retorica dell’urgenza e della paura. Da un lato ha invitato tutti a non fare diventare la Spagna lo «zimbello d’Europa» a causa della paralisi politica. Diceva: «La Spagna ha bisogno di un governo efficace, e ne ha bisogno con urgenza». Dall’altro, ha contrapposto l’usato sicuro (la sua premiership “moderata”) alla paura di «un’avventura radicale», facendo riferimento a un eventuale governo PSOEPodemos: «La mia proposta rappresenta l’unica reale possibilità per la Spagna di avere un governo moderato, e non un’avventura radicale nell’incertezza e nell’inefficienza».

Segretario defenestrato, partito a pezzi. E ora che succede? Le opzioni

Governo Rajoy oppure elezioni a Natale? Il PSOE ha solo due settimane di tempo, o poco più, per decidere cosa fare. Se entro il 31 ottobre Rajoy non tornerà in sella a pieni poteri, al re Felipe IV toccherà sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni. Al momento i socialisti si sono affidati a una direzione provvisoria di dieci membri, una sorta di collegio di garanti, guidato da Javier Fernández. I tempi stringono e bisogna capire se cedere a un governo di minoranza Pp – per provare a ricostruirsi dalle macerie – oppure condurre il Paese verso le urne il 25 dicembre prossimo.
Il partito è diviso: mentre Diaz, la lady di ferro che in tanti già vedono come la prossima segretaria socialista, temporeggia, Fernández afferma chiaramente che andare per la terza volta al voto sarebbe solo la soluzione peggiore. Il leader storico socialista, Felipe González, detta la linea e chiede l’astensione sulla nomina di Rajoy, così da evitare un nuovo test per il PSOE (da cui il partito potrebbe uscire a pezzi).
Il PSOE deve rimettere insieme i pezzi e cercare di ritrovare una sua identità. Con Diaz, virando a destra, i socialisti rischiano di assomigliare così tanto ai popolari che potrebbero sparire. In uno scenario simile, a guadagnare sarebbe Podemos, che colmerebbe in solitaria lo spazio lasciato vuoto a sinistra, secondo cui «Nessun partito decente farebbe accordi con il Pp».

Cinque sconfitte in un anno. Il sorpasso di Podemos a sinistra

Dopo due prove fallimentari alle politiche, Sánchez poteva contare solo sui risultati delle elezioni regionali basche e galiziane del 25 settembre. Ma si trattava di una sconfitta annunciata. Il “fracaso” socialista non ha tardato ad arrivare. Il Partido Popular ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi in Galizia con 41 deputati su 75, contro i 14 del PSOE. Così è avvenuto il sorpasso di Podemos che ha guadagnato il 19% dei consensi contro il 18 del partito di Sánchez. I dati baschi sono stati ancora più sconfortanti: il PSOE si è piazzato dietro Podemos, con 9 seggi contro 11 (come il Pp), mentre i nazionalisti del Pnv festeggiavano i loro 29.
Facendo la somma delle elezioni tenutesi negli ultimi dodici mesi, il partito ha collezionato solo fiaschi. Se si parte dalle catalane di settembre 2015 e si aggiungono le politiche di dicembre 2015 e di giugno 2016, al 25 settembre 2016 – tra politiche e regionali – si contano cinque sconfitte, ovvero cinque bocciature della linea inflessibile di Sánchez. Quel giorno di fine settembre, il quotidiano El Pais, storicamente vicino ai socialisti, scriveva il discorso funebre del partito. «Il Psoe appare sempre più difficile da riparare davanti all’implacabile successione di sconfitte storiche». Parlava di un «disastro socialista», si scagliava duramente contro Sánchez, reo di aver opposto resistenza a oltranza: la sua «intransigenza come un muro davanti alla possibilità di un governo Pp pregiudica elettoralmente il partito».

Cronaca di una morte (politica) annunciata

Invece di provare a recuperare, Sánchez ha continuato a battere sullo stesso tasto: niente accordi possibili a sinistra, ma anche nessuna apertura a un governo di minoranza targato Rajoy. Era il 25 settembre e, da allora, la sua fine politica ha avuto solo i giorni contati. “El Guapo” ha continuato a ripetere che non si sarebbe dimesso. Progettava già una sua nuova leadership alle primarie che aveva intenzione di convocare per il 23 ottobre. Pianificava anche un congresso socialista a dicembre. In tanti, tra i “baroni” dell’ala destra del partito vicina a Susana Diaz, lo accusavano di volersi nascondere dietro un congresso pur di non affrontare il crollo alle urne.
Quella che fino ad allora era stata una guerra sotterranea, finiva così alla luce del sole. A tre giorni dalle regionali basche e galiziane, Sánchez si è ancorato alla leadership, ma gran parte del partito lo aveva già fatto fuori. In 17 su un totale di 33 si dimettevano dall’esecutivo nazionale. Speravano che il segretario mollasse subito. E invece no. Sánchez ha puntato al consiglio federale del partito. Il piano era il solito: resistere a oltranza fino alle primarie. Gli avversari avevano persino giocato la carta dell’ex primo ministro González pur di farlo ragionare a farsi da parte e provare una transizione diversa o a cercare appoggi fuori. González ha affermato di sentirsi «ingannato» da Sánchez, il quale aveva precedentemente promesso che si sarebbe astenuto in seconda battuta al voto su un nuovo governo Rajoy.
Quel giorno El Pais scriveva del PSOE come di un «partito sequestrato» dal suo segretario, accusandolo di spendersi in manovre tattiche solo «per evitare di assumersi la responsabilità dopo una serie di sconfitte gravissime». Sanchez ha perso un’occasione, insistendo in quello che El Pais definiva «un ricatto politico: o con Rajoy o con me».

Susana Diaz, la donna del compromesso

«Andrò dove me lo chiedono i compagni, al primo o all’ultimo posto». È il refrain di Susana Diaz, responsabile numero uno del colpo che ha defenestrato Sánchez. Ha 41 anni, è figlia di un idraulico, si è fatta da sola. Ha scalato il partito, ha vinto le elezioni in Andalusia nel 2015 e da allora ha sempre ripetuto: «Governerò da sola». Ha sempre chiuso alle alleanze a sinistra con Podemos e più a destra con Ciudadanos. Già a settembre 2015 la sua strategia era cristallina, diceva: «Ora siamo la prima forza e ho la stabilità che non avevo mesi fa. Prima non potevo approvare nulla che non volesse il socio di governo. Adesso solo il Pp e Podemos possono unire più voti del Psoe. Anche il resto delle forze ha una responsabilità, che è porre al di sopra di tutto gli interessi dell’Andalusia».
Diaz è la donna del compromesso, rappresenta l’ala “moderata” dei socialisti, quella parte che guarda più al centro che a sinistra. Dice che si oppone e si opporrà a un governo Rajoy, ma in tanti la definiscono una versione al femminile di Felipe González, che portò il partito a governare ininterrottamente dal 1982 al 1996. Ma erano altri tempi. E quello che per Susana Diaz significa «guarire le ferite del partito» potrebbe essere solo l’inizio di una lunga corsa verso l’implosione dei socialisti in Spagna.

«La Spagna cresce», ma ha un debito altissimo. Cosa vuole l’Europa

In tanti hanno scritto che la Spagna cresce anche senza un governo. Lo ha scritto il Financial Times, lo hanno raccontato i dati più recenti relative all’Eurozona. Ma ci sono delle variabili da considerare, i numeri non parlano da soli, come abbiamo già ricostruito qui. La Spagna cresce sì, ma ha un debito al 99.2% del Pil nel 2015. Il numero dei disoccupati continua ad aumentare. Secondo i dati Eurostat, aggiornati a luglio 2016, il 43.9% dei giovani spagnoli è senza lavoro.
Se il FT scrive che l’economia spagnola va a gonfie vele, Rajoy sostiene che dal 2011 al 2015 il suo governo ha fatto tutte le riforme chieste dall’Europa per fare tornare il Paese a crescere: leggi del lavoro più flessibili e abbassamento del costo del lavoro. Secondo i dati diffusi da Bloomberg, «gli investimenti sono saliti del 2,2% nel secondo trimestre del 2016, le esportazioni del 4,3%. Nel complesso l’economia è cresciuta dello 0,8%, con 484.000 posti di lavoro a tempo pieno in più rispetto al 2015». È davvero tutto merito del governo? C’è di più. L’economia spagnola ha beneficiato anche «degli stimoli della Banca centrale europea» e del ribasso dei prezzi del petrolio. Come abbiamo già scritto, secondo quanto spiega qui al Fatto l’economista Jorge Uxó dell’Universidad Castilla La Mancha: «L’economia comincia a registrare una decelerazione della crescita. Un Paese può vivere senza un cattivo governo, ma non senza un buon governo. La ripresa è basata su pilastri molto fragili. Può mantenersi per inerzia per un certo tempo, ma per un altro modello di sviluppo è necessario un governo che prenda decisioni diverse da quelle degli ultimi anni. L’Unione europea non sta facendo pressioni perché ci sia un governo qualunque, ma perché ci sia un governo che adotti le misure che si stanno dettando da Bruxelles».
Mentre si consuma la crisi socialista e la Spagna è paralizzata da mesi, Bruxelles resta in ombra. Madrid dovrebbe tagliare il suo deficit dal 5,1% del Pil nel 2015 al 3,1% nel 2017: questo vuole l’Europa. In teoria  il 15 ottobre dovrà presentare a Bruxelles il bilancio e il tetto di spesa per il 2017, visto che a luglio la Commissione europea aveva evitato la multa per l’eccessivo disavanzo e il Consiglio d’Europa aveva esortato a ridurre il deficit al 4,6% del Pil entro quest’anno. L’interesse principale dell’Unione europea è che la Spagna faccia le riforme: tagli e austerity. Seguendo questa logica, un governo Rajoy darebbe maggiori garanzie rispetto a un esecutivo socialista, come quello che avrebbe potuto creare Sánchez.
Il “fracaso” socialista apre una riflessione più ampia, come ha scritto Jorge Galindo su El Pais: «In un’Europa divisa tra creditori e debitori, l’unico modo per realizzare un nuovo progetto di crescita inclusiva è un patto tra i primi e i secondi. Ma i socialdemocratici europei sono rimasti per anni intrappolati nel processo di separazione dei due mondi, così che la Germania è sempre più lontana dalla Grecia e l’Olanda dalla Spagna. Ora, con uno spazio elettorale nazionale molto più stretto, il centro si sforza di trovare il modo più semplice per sopravvivere».

Come gestire il crollo politico

Sánchez ha inseguito la strategia del “muro contro muro”, sia contro Rajoy che contro l’opposizione interna, ma a differenza di Corbyn non ha il carisma e i numeri per rimanere al comando del suo partito.
D’altro canto il PSOE è comunque in grande difficoltà qualunque cosa faccia. Se scegliesse di andare al governo col partito Popular, sarebbe finito, in un Paese spaccato in due dai tempi della guerra civile (’36-’39), nel quale per gli elettori di sinistra appare inconcepibile votare un partito che governa con gli eredi politici del franchismo. Se i socialisti si alleassero con Podemos,cosa che sembra al momento impossibile, ne verrebbero fagocitati politicamente.
Inoltre, alle elezioni amministrative locali il PSOE è stato penalizzato dai vari scandali di corruzione e dal taglio di bilanci e stanziamenti alle regioni, imposti dalle politiche di austerity. I socialisti, che devono i loro voti a politiche “redistributive” di spesa pubblica, soffrono più dei popolari quando le regioni devono stringere la cinghia. Gestire la crisi è parecchio complesso.
Nei principali Paesi europei, i referenti politici di comprovata fedeltà atlantica sono in crisi di consenso. L’Europa può cedere al caos, mentre tramonta la “governabilità” come modello centrista impostato sull’austerity e sulla paura. Il mancato accordo tra popolari e socialisti a Madrid per la composizione del nuovo esecutivo è forse il segnale più preoccupante di questa tendenza. Da La morte clinica dell’Europa. Il Tredicesimo piano.

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