La gentrification ha accompagnato come un'ombra le dinamiche urbanistiche di questo trentennio. Un processo favorito se non creato da una formula classica: capitali internazionali e intervento dello Stato, mediante agevolazioni fiscali e liberalizzazione dei contratti d'affitto.
Gradualmente sono venuti via i pezzi. L’insegna “Grande Brasserie du Levant”. La scritta in arabo che la bellezza calligrafica rendeva una decorazione a sormontare la facciata.
La demolizione è cominciata a marzo 2017 e in questi ultimi giorni è entrata nella fase conclusiva. Pochi mesi, che sarebbero potuti essere ancora meno, per distruggere un edificio storico passato indenne attraverso guerre e decenni.
La gentrification ha ovunque lo stesso volto. Prescinde dalle culture locali e dalla stabilità di un’area. Dall’Europa Meridionale alla Scandinavia, dal Nord America all’Estremo Oriente. Ciò che abbiamo visto in azione a Lipsia o a Chicago, attua le stesse pratiche in una città mediorientale in odore di guerra.
Il birrificio della Laziza è stato il primo del Medio Oriente, costruito nel 1931. All’epoca si scelse evidentemente di far procedere estetica e funzionalità assieme. Da qui la presenza per esempio di un’elegante scala a chiocciola interna, ben poco comune in uno spazio industriale.
Certo, come scriveva «The Economist» proprio a partire dalla Laziza Factory, “il mondo arabo non è un buon posto per vendere birra”. Eppure le proibizioni religiose non hanno troppo ostacolato la produzione: nel 2014 si stimava che in Libano si consumassero circa 29 milioni di litri di birra all’anno. Il vero guaio riguarda la necessità di importare la maggior parte degli ingredienti, spese (spedizione, dazi) che si aggiungono a tasse e bollette già elevate.
Il birrificio di questa nostra storia ha dovuto chiudere all’alba degli anni Novanta. In quel momento Laziza (che si può tradurre grosso modo con “delizioso”) era il principale brand di birra libanese.
Beirut è in frenetica trasformazione. Un movimento continuo, sia delle persone che la abitano sia delle forme che la compongono. La febbre edilizia, esplosa in coda alla Guerra Civile (1975-1990), ha fatto dire al Ministro della Cultura nel 2010 che a Beirut restavano solo 400 dei 1.200 vecchi palazzi censiti nel 1995.
La gentrification ha accompagnato come un’ombra le dinamiche urbanistiche di questo trentennio. Un processo favorito se non creato da una formula classica: capitali internazionali e intervento dello Stato, mediante agevolazioni fiscali e liberalizzazione dei contratti d’affitto.
Mar Mikhaël prende il nome dalla chiesa maronita che vi ha sede. Ha una tradizione da quartiere working-class, densamente abitato, con una forte presenza armena. Una delle zone meglio conservate della città, accanto al suo rinnovato distretto centrale e al porto.
La riconversione del birrificio rientra in un quadro più ampio, di gentrification dell’intero quartiere. Dall’inizio del nuovo millennio, Mar Mikhaël ha infatti conosciuto una brusca trasformazione, spiegabile essenzialmente con la convenienza dei suoi prezzi e la saturazione dell’intrattenimento nell’adiacente Gemmayzeh. Sta di fatto che il quartiere si è orientato a una sinergia tra lavoro creativo e business: dalle boutique di design alle gallerie d’arte, alla produzione di gioielli. E si è riempito di ristoranti, bar, locali alla moda. Secondo il «New York Times», è diventato “una nuova enclave per la scena artistica e alternativa”.
Parallelamente hanno preso piede speculazioni più esplicite. Su tutte, basti citare i venti piani di lussuosi appartamenti della torre AYA, di proprietà della HAR Properties (tra i cui fondatori figura il figlio dell’ex primo ministro Rafīq al-Harīrī). Per tirare su la torre, sono state buttate giù alcune vecchie case e un cinema.
Il birrificio ha rappresentato un motore economico per il quartiere. Negli anni che hanno seguito la chiusura, poi, ha ospitato festival e incontri pubblici. Uno di questi ultimi, nel 2014, per un amaro paradosso era incentrato su: “Creatività e rigenerazione a Mar Mikhaël”. Nell’occasione gli si prospettò un futuro prossimo da “incubatore per l’industria creativa”.
Il futuro prossimo è stato invece un complesso residenziale di lusso. Un grande progetto sotto la guida dell’architetto Bernard Khoury, figura nota per i suoi locali notturni e appartamenti di lusso. Khoury si è difeso dalle polemiche, sollevate dalla demolizione insieme alla polvere e al gran rumore: “Non si omaggia la memoria con la mummificazione. Stiamo mantenendo l’impronta dell’edificio, che è il suo DNA, ma nessuno lo vede: si attaccano a vecchi concetti di ciò che significa conservare un edificio”.
Le proteste della società civile scattano a marzo scorso, all’inizio dei lavori. Ci si unisce nella campagna: “Salviamo Mar Mikhaël dai mega-progetti”. Gli abitanti dei palazzi intorno allo stabilimento fanno sentire la paura che la riqualificazione coinvolga l’intera area e magari li cacci via. Il displacement è un pericolo reale. Nel giro di poche settimane, i lavori si interrompono. Una vittoria temporanea: presto tutto si rimette in moto.
Il nuovo complesso si chiamerà “Mar Mikhaël Village”. La società immobiliare dietro all’operazione ne parla così: “Loft chic e trendy che esprimono il vivere nella città contemporanea, in the hip area of Mar Mikhaël”.
Poco lontano è in fase di costruzione un altro edificio simile. Residenziale e commerciale, con prezzi che partono da 3.300 dollari al metro quadro. L’edificio si chiama “Bobo”. Una bella strizzata d’occhio nei confronti dei Bourgeois-Bohémiens, target esplicito dell’operazione. Tra i pochi, d’altronde, che potranno permettersi di vivere lì.
Per approfondire:
M. Krijnen, C. De Beukelaer, Capital, state and conflict: the various drivers of diverse gentrification processes in Beirut, Lebanon, in L. Lees, H. B. Shin, E. López-Morales (a cura di), Global gentrifications. Uneven development and displacement, The Policy Press, Bristol 2015.
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