La scena è questa. È il finale del film.
In seguito a una clamorosa delusione d’amore con una collega, il protagonista, un oscuro impiegato di una non meglio precisata megaditta chiede il trasferimento ad altro ufficio. Qui incontra un certo Folagra – “intellettuale di estrema sinistra che tutti avevano sempre schivato per paura di essere compromessi agli occhi dei feroci padroni” – che gli rivela una nuova ragione di vita: la politica. Allora s’immerge in uno studio matto e disperatissimo dei testi sacri della contestazione che in quegli anni – il film è del 1975 – sta dando l’assalto al cielo della crisi in Europa.
Alla fine, “dopo tre mesi di letture maledette […] vide la verità, o meglio, s’incazzò come una bestia”, contro “il padronato e le multinazionali [che] per vent’anni mi hanno lasciato credere che mi facevano lavorare solo perché loro erano buoni”.
Avuta la rivelazione, la mattina dopo si presenta al lavoro e lancia un mattone contro le finestre dell’azienda.
Qui c’è già tutto.
A partire dal gesto comico.
Il protagonista è un corpo flaccido, mostruoso, incapace di movimenti propri, costantemente sballottato sulle onde dei luoghi del lavoro – l’ufficio, il corridoio, la mensa – dal moto perpetuo della produzione.
Gli occhi bassi, lo sguardo terrorizzato, le labbra cadaveriche, i movimenti impercettibili di mani che non superano mai l’altezza del gomito e gambe che non fanno mai il passo più lungo del ginocchio, costruiscono una maschera tragicomica degna dei grandi maestri.
Come scriveva Michail Bachtin in L’opera di Rabelais e la cultura popolare, la maschera sovversiva del corpo comico è in perpetua “transizione”. È una “metamorfosi, in violazione dei confini naturali” del corpo stesso. E quella dell’impiegato lo è magistralmente in antitesi. In sottrazione.
I movimenti controllati portano il corpo sfruttato in prossimità dell’immobilità. Alla plasticità di Charlie Chaplin imprigionato negli ingranaggi contrappone la stasi dell’impiegato compresso dalle pratiche burocratiche, alla meccanicità incapace di comprendere il moderno di Jacques Tati la fiacchezza incapace di vivere e desiderare del contemporaneo.
La stessa clamorosa delusione d’amore è la negazione assoluta della capacità di godere, la mortificazione del desiderio nell’era del godimento libero.
Il gesto comico del protagonista è un mattone lanciato contro le vetrine dello status quo e al tempo stesso contro ogni tentativo di superarlo.
È l’abbattimento brechtiano della quarta parete, quando – attraverso il gesto “citabile” – si aliena lo spettatore per interrogarlo su quale sia la realtà sociale che ha prodotto il film e, soprattutto, sta producendo lo spettatore stesso.