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MONITOR


lun 12 giugno 2017

FACOLTÀ DI DISUGUAGLIANZA MADE IN USA

Le università delle Ivy League (le otto più elitarie e inaccessibili degli Stati Uniti) portano acqua al mulino della diseguaglianza, mentre l'istruzione pubblica viene ridotta all’osso. Meritano di essere smantellate.

Questo articolo, a firma di Freddie Deboer, è apparso in inglese su “Jacobin Magazine” il 22 maggio 2017.
Il 22 maggio ha avuto luogo la 316esima cerimonia di consegna dei diplomi dell’università di Yale. Giovani raggianti e i loro orgogliosi genitori si sono riversati nell’immacolato campus di New Haven, impazienti di fare un’ulteriore scalata alle vette del successo americano.
Sanno, come sicuramente sapevano il giorno della loro immatricolazione, che il passaggio attraverso una tale – maestosa – istituzione li ha preparati per una vita di sicurezza economica ed elevate posizioni sociali. In altre parole, sanno – come del resto tutti i giovani – di essere nel posto giusto per entrare nell’esclusivo mondo delle élite d’America.
Nello stesso momento, altrove in Connecticut, dodici community college[1] e quattro università pubbliche – una nella stessa città di Yale – stanno morendo di consunzione, ridotte alla fame dall’austerity e dal neoliberismo, mentre il governatore (Democratico) di un ricco stato a maggioranza Democratica firma brutali tagli ai fondi per l’istruzione, i servizi sociali e le cure di salute mentale, e lotta per abbassare le tasse alle aziende.
I tagli al sistema universitario pubblico del Connecticut sono particolarmente devastanti. Si rischia la fine di intere facoltà, la chiusura di dipartimenti, la  perdita posti di ruolo per i docenti. Programmi di studio che aiutano a formare in modo appropriato un ingente corpo studenti che non ha accesso, in larga parte, ai canali “tradizionali” dell’istruzione superiore privata, e quindi necessita supporto in modo particolare, sono pesantemente minacciati.
Interi corsi potrebbero essere eliminati dalle programmazioni didattiche, rendendo ancora più difficile la gestione del tempo scolastico – e quindi la possibilità stessa di frequentare una facoltà – per gli studenti lavoratori o con esigenze genitoriali. In ogni caso, un sistema universitario che già fatica a fornire un servizio adeguato agli studenti e allo stato, grazie alla restrizione delle risorse potrebbe subire un destino fatale.

Ne faccio, anche, una questione personale, come laureato della Central Connecticut State University, nel sistema universitario pubblico. Non voglio eccedere in autocelebrazione affermando di essere uno dei tanti esempi di storie di successo sfornate quotidianamente dal sistema universitario del Connecticut e da altri simili. A poco più di vent’anni, ero perso: orfano, completamente al verde, con problemi di alcol, in lotta con una patologia psichica non ancora diagnosticata, senza direzione né obiettivi. Ma cominciai a frequentare le lezioni nel community college locale per un anno, poi mi sono iscritto alla Central, dove ho incontrato docenti cordiali, coinvolgenti e totalmente devoti alla loro  missione, che mi hanno guidato nel percorso di formazione e mi hanno fatto prendere coscienza delle mie capacità e conoscenze, capire che avevano un valore spendibile – che la mia vita aveva un valore. Oggi ho un dottorato, vivo a New York, lavoro io stesso in un meraviglioso college pubblico, e ho firmato articoli su alcuni dei più prestigiosi quotidiani e magazine del mondo. Devo tutto ciò, senza eccezioni, al sistema universitario pubblico del Connecticut. È lì che ho rimesso insieme i pezzi della mia vita, grazie alla dedizione dei professionisti che ci lavoravano e alle tasse universitarie relativamente basse che mi permettevano di frequentare.
Lo dico senza timore di esagerazioni: il sistema universitario pubblico del Connecticut mi ha salvato la vita. Ora, per un disavanzo di meno di 100 milioni di dollari all’anno, quel sistema rischia di essere permanentemente mutilato.
A peggiorare ulteriormente le cose, poco lontano dalla mia vecchia università, lungo la Interstate 91, Yale sta seduta su una montagna di soldi, e molti, molti di più ne riceve dalle casse dello stato. L’entità dei finanziamenti con cui il governo sovvenziona la già immensamente ricca Ivy League rasenta l’incredibile. Un’inchiesta di Open the Books, un’organizzazione che si batte per la trasparenza nella spesa pubblica, stima che i governi statali e quello federale abbiano speso oltre 40 miliardi di dollari per le università della Ivy League – in esenzioni fiscali, contratti, borse di studio e donazioni dirette –  tra il 2010 e il 2015.
Le otto università della Ivy League – piccole istituzioni d’élite situate in un’unica regione del Paese, che servono una minima parte dei nostri studenti e che non avrebbero quasi bisogno del supporto pubblico – ricevono più fondi ogni anno dal governo federale, in media, che sedici stati. Tra gli studenti provenienti dallo 0,1 percento di famiglie in cima alle classifiche di reddito, quattro su dieci frequentano le università della Ivy League o simili; nel 2012, il 70 percento delle matricole di Yale proveniva da famiglie con un reddito superiore ai 120.000 dollari l’anno; il reddito familiare medio di uno studente di Harvard è il triplo della media nazionale. La schiacciante maggioranza di questi studenti approda a una vita di sicurezza economica, e molti alle sfere più alte del nostro sistema economico.
Eppure continuiamo a convogliare fiumi di denaro pubblico su queste floride istituzioni, e i loro agiati ex alunni rovesciano loro addosso centinaia di milioni di dollari in sovvenzioni esentasse, spesso evocando, mentre lo fanno, lo spirito del “dono” e l’aspirazione alle pari opportunità per tutti. Nello stesso momento, sappiamo in modo empirico che sistemi come il CSU[2], o il sistema delle università cittadine di New York (dove lavoro ora), o il sistema delle università pubbliche della California – i cosiddetti “America’s Great Working Class Colleges” – riescono molto meglio a favorire la mobilità sociale rispetto alle loro controparti d’élite. Eppure, ognuna di queste realtà soffre per le brutali diminuzioni di risorse, anche oggi che la nostra nazione non è mai stata così ricca.
Quale filosofia politica, precisamente, può giustificare questo stato di cose? Quale ideologia riuscirebbe a sostenere che questo è un utilizzo corretto delle risorse, pubbliche e private?
Eppure la situazione perdura, anzi peggiora, anno dopo anno. Nessuno sembra chiedersi perché queste istituzioni oggettivamente – mostruosamente – ricche debbano ricevere un tale e spudorato sostegno pubblico; né si trova una risposta plausibile al perché moltissimi dei nostri nababbi continuino a staccare ingenti assegni a queste istituzioni, mentre i college per i lavoratori, che necessitano disperatamente di fondi, vengono lasciati a bocca asciutta. Sono assolutamente devoto all’idea che l’istruzione superiore debba essere finanziata con denaro pubblico, ma sono anche perplesso di fronte alla tendenza della filantropia a rivolgersi dove meno c’è bisogno di lei.
Dov’è Bill Gates quando c’è da sovvenzionare i college per la working class? Dov’è Mark Zuckerberg? Perché l’impulso filantropico, quando si tratta di istruzione superiore, si risolve sempre in ricchi che diventano più ricchi? Il Connecticut è la patria di un piccolo esercito di gestori di hedge fund e di altri tipi umani incredibilmente abbienti. Sarei felice se si potesse prelevare a forza il loro denaro per il bene di tutta la società.
Ma, a parte questo, perché non utilizzano il boccheggiante sistema di istruzione pubblico del Connecticut per procurarsi esenzioni fiscali, piuttosto che università elitarie già schifosamente ricche? A meno che il vero obiettivo di quelle donazioni non sia creare parità di accesso e mobilità sociale, ma distruggerla, assicurandosi che solo chi comincia al top ci rimanga. Le università d’élite hanno tanti pregi, ma senza dubbio rafforzano e rendono più profonde le disuguaglianze. In fin dei conti è la loro funzione principale: perpetuare la classe dirigente.

Non ho dubbi che tra gli studenti di Yale del 2017 ci siano molti giovani intelligenti, talentuosi e appassionati. Auguro loro il meglio. Anche quelli tra loro non così brillanti o studiosi, però, non ne dubito, raggiungeranno un posto al vertice in virtù di un privilegio di nascita e condizione. Sono un socialista, non mi interessa rendere queste persone più esposte alle difficoltà materiali e ai capricci della fortuna, piuttosto fornire a tutti lo stesso livello di protezione – e ciò significa espugnare i forzieri delle loro scuole, dei loro genitori e dei loro futuri datori di lavoro per il progresso di tutti. Anche i laureati del sistema universitario pubblico, non ho dubbi nemmeno su questo, raggiungeranno brillanti risultati. Chi possiede un titolo di studio, dopo tutto, mantiene un significativo vantaggio in termini di reddito e tasso di disoccupazione rispetto a chi non riesce a ottenerlo.

Ma quanto faticheranno, con i docenti sempre più spremuti e ridimensionati dai tagli? Quanti sprofonderanno sempre più nei debiti, costretti a frequentare semestri addizionali di lezioni per completare il percorso di studi? Quanti abbandoneranno, e soffriranno schiacciati sotto il giogo dei mutui contratti per pagare gli studi senza nemmeno un diploma per assicurarsi una vita migliore? Quanti che avrebbero potuto essere salvati – come me – non lo saranno a causa di questi tagli?
La cerimonia della consegna dei diplomi, a Yale, sarà stata ovviamente gremita di spettatori liberal, rispettabili progressisti che affermano di credere nell’uguaglianza e nella giustizia sociale. Tra questi, buona parte dei genitori. I banchi degli studenti saranno pieni, senza dubbio, di radicali convinti, e la facoltà ricolma di marxisti e socialisti. Faranno un bel servizio a questo luogo: la comunità di Yale, per esempio, ha recentemente costretto la scuola a cambiare nome al Calhoun College, una volta appurato che l’eponimo John C. Calhoun era uno schiavista. Plaudo allo zelo di tutti gli attivisti coinvolti in azioni del genere. Quello che però la comunità di Yale non riesce a fare – e probabilmente non vorrebbe farlo, nemmeno se potesse – è dismettere il suo ruolo di propulsore della diseguaglianza americana.
Nonostante tutte le persone rispettabili coinvolte, non c’è la minima possibilità che Yale smetta spontaneamente di fungere da incubatore della classe dirigente. Sarebbe impensabile. Questa è la realtà dell’istruzione superiore: apparenti sinistrorsi vegliano sull’accumulazione, a velocità esponenziale, di potere, denaro e privilegio. Un’altro mondo – uno migliore – forse esiste, ma non lo si costruisce da dentro il campus.
Finché non lo raggiungeremo, quel mondo migliore, dovremo gestire queste orribili disparità. In un mare di orrore politico non è facile per me immaginare un’ammissione più desolata degli enormi fallimenti dell’America: un sistema universitario pubblico alla canna del gas, che serve i poveri e i bisognosi, mentre, a pochi isolati, una scuola per l’1 percento della popolazione sta seduta su 25 miliardi di dollari, esentasse.
Gli studenti del CSU, come quelli di Yale, cammineranno sui prati del campus con i berretti e le tuniche, impazienti di cominciare le loro nuove vite. Gli studenti del CSU, come quelli di Yale, cercheranno di crearsi i presupposti di una vita migliore. Ma quanti di loro si troveranno inghiottiti in quest’altra America, l’America della forbice sociale e dell’austerity, mentre a quelli che già hanno sarà dato ancora di più?

[1]   Negli Stati Uniti, istituti di istruzione secondaria, pubblici.
[2]   Connecticut State University

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