Decodificare il presente, raccontare il futuro

MONITOR


mar 15 marzo 2016

ANCHE LA DESTRA PUNTA SUI POVERI

La parola disuguaglianza entra nella retorica dei programmi elettorali. Repubblicani e Democratici corteggiano quel 99% con i salari fermi al 1973

15 MARZO 2016 – Come movimento organizzato si è disintegrato già da tempo. A livello elettorale è stato poco incisivo, molto meno della sua nemesi del Tea Party. Eppure Occupy Wall Street ha lasciato un’importante eredità politica agli Stati Uniti, quanto mai evidente in questa campagna 2016 per la Casa Bianca: le difficoltà della classe media e l’accresciuta disuguaglianza economica tra i pochi che hanno tanto e i tanti che hanno poco fanno oggi da filo conduttore alla campagna elettorale in entrambi i partiti e sono tra i bersagli preferiti di tutti gli aspiranti presidenti. Certo, le loro proposte programmatiche si differenziano nel tono e nei dettagli a seconda delle rispettive appartenenze politiche. E nella sostanza sono decisamente meno innovative di quanto possano apparire. Non c’è dubbio però che siano cambiati i termini del dibattito complessivo.
I dati non lasciano spazio a perplessità. I salari dei lavoratori sono praticamente fermi dagli anni Settanta, mentre nel frattempo i redditi dell’1% più affluente sono esplosi. Per la precisione, i dati elaborati dall’Economic Policy Institute (EPI), un centro di ricerca di Washington, mostrano come il salario orario del lavoratore americano tipico sia cresciuto solo il 9,2% dal 1973 al 2014 (dato aggiustato all’inflazione) a fronte di un aumento della sua produttività del 72,2%.
Ben diversa la storia per chi guadagna i compensi più alti, si pensi ad esempio ai finanzieri di Wall Street, agli Amministratori delegati o agli atleti professionisti. Sempre l’EPI rileva infatti che dal 1979 al 2013, i loro salari annuali sono cresciuti del 138%.
L’ultima crisi finanziaria non ha fatto che accentuare questa tendenza e oggi molti dei benefici della ripresa stanno andando ancora una volta a chi è in vetta alla piramide socio-economica del Paese. Da quando gli Stati Uniti sono usciti dalla recessione nel 2009 fino almeno al 2013, l’1% di famiglie con i redditi più alti hanno visto le proprie entrate aumentare del 34,7%, mentre quelle che appartengono all’altro 99% della popolazione hanno registrato un miglioramento di solo lo 0.8%. Secondo l’economista Emmanuel Saez, dell’Università di California-Berkeley, questi dati significano che l’1% ha fatto proprio il 91% del reddito reale complessivo prodotto a partire dall’inizio della ripresa economica.
Non sorprende dunque che gli Stati Uniti si dimostrino terreno fertile per il Senatore del Vermont Bernie Sanders, socialista autoproclamato che ha da subito fatto di questo il tema centrale della propria campagna elettorale. “Questo bel Campidoglio e questa nazione appartengono a tutti noi”, Sanders dichiarò a fine aprile annunciando dalla scalinata del Congresso di Washington la propria candidatura alla Casa Bianca. “Come è possibile che l’1% al top possieda quasi la stessa ricchezza del rimanente 99% di americani? Non è solo immorale, non è solo sbagliato, non è proprio sostenibile”. Sanders si batte per i diritti dei lavoratori dall’inizio della propria carriera politica, e dunque ha una reputazione inattaccabile su questo fronte. Le proposte da lui avanzate in proposito sono di impronta piuttosto tradizionale, dall’intento esplicitamente redistributivo. Sanders non ha certo paura di invocare tasse più alte per finanziare l’aumento considerevole della spesa pubblica da lui auspicato per rafforzare la rete di sicurezza sociale, dalla sanità all’istruzione al salario orario minimo. Si tratta di una posizione coraggiosa, storicamente tabù nella politica nazionale americana. L’ultimo candidato democratico a farla propria in campagna elettorale fu Walter Mondale nel 1984. Mondale fu sconfitto facilmente dal repubblicano Ronald Reagan nel voto del novembre di quell’anno. La critica più frequentemente portata a Sanders, quindi, non solo dalla destra ma anche da economisti di area democratica-liberal, è che la sua proposta politica non sia realistica, giacché secondo alcune stime finirebbe per ampliare le dimensioni del governo federale di circa il 50% in un Paese in cui tanta gente guarda a Washington con sempre maggior sospetto. Nel frattempo però il senatore è riuscito a generare un’ondata di entusiasmo tra gli elettori democratici, in particolare i più giovani, che nessuno si aspettava.
Indubbiamente più moderata, e di conseguenza meno elettrizzate, la piattaforma economica di Hillary Clinton. Anche Clinton ovviamente si posiziona come protettrice della classe media, e si propone di ridurre i costi dell’università, promuovere gli investimenti nelle infrastrutture e garantire nuovi diritti ai lavoratori americani, ad esempio congedi di maternità e paternità pagati. Il tutto, senza aumentare le tasse, se non quelle dei più ricchi, in particolare coloro che derivano i propri redditi da attività collegate all’alta finanza. Per differenziarsi da Sanders, Clinton batte su questo punto con insistenza. “Sono l’unica candidata in corsa in entrambi i partiti che dice che il mio obiettivo e il mio impegno è di far aumentare i redditi e non le tasse della classe media,” ama ripetere l’ex segretario di Stato. La strategia di Clinton non è rivoluzionaria ma incrementale, e si fonda sulla difesa di Obamacare nella forma attuale, su nuove regolazioni sulle banche e sui mercati, sulla collaborazione con il settore privato nelle aree delle infrastrutture e della ricerca. I finanziamenti elettorali che Clinton riceve da Wall Street, però, e i rapporti amichevoli che sia lei sia il marito hanno sempre intrattenuto con i finanzieri americani minano la sua credibilità sul tema della disuguaglianza. Tema che quest’anno ha molta trazione anche in casa repubblicana. La ragione è ovvia: è il trampolino perfetto da cui lanciare l’attacco all’amministrazione del Presidente Barack Obama e proporsi quindi come alternativa di governo. Nonostante la recessione sia finita negli Stati Uniti nel 2009, l’economia sia in crescita, la disoccupazione sia tornata su livelli pre-crisi, e il sistema finanziario sia meglio regolato e più stabile che in passato, la percezione di una grossa fetta dell’elettorato americano, e della stragrande maggioranza dei repubblicani, è che le cose stiano andando sempre peggio.
Per i candidati del GOP, questa è un occasione ghiotta per far proprie alcune delle rivendicazioni tipiche dell’elettorato di sinistra, reinterpretandole in chiave conservatrice e sfruttandole a proprio favore. “Voglio salvare la classe media”, ha dichiarato Trump l’estate scorsa. “Quelli degli hedge fund non hanno costruito questo Paese […] Guadagnano una fortuna. Non pagano tasse. È ridicolo. Intanto la classe media viene totalmente distrutta”. Marco Rubio, che si è ripromesso di fare delle preoccupazioni della classe media un elemento portante della politica repubblicana, non si stanca mai di ricordare agli elettori delle proprie origini umili e del sogno americano dei genitori immigrati da Cuba, la madre cameriera e il padre barista in un albergo. Il padre di Ted Cruz invece, anche lui un immigrato, lavava i piatti in un ristorante. Al di là della retorica, le proposte economiche dei candidati GOP alla Casa Bianca si assomigliano tutte, fedeli come sono alla tradizionale ricetta conservatrice fatta di tagli alle tasse e simultanea riduzione della spesa pubblica. Come da ortodossia repubblicana, Trump, Rubio e Cruz, vedono nel governo il nemico pubblico numero uno e quindi vogliono dargli battaglia, allentando le norme finanziarie della riforma Dodd-Frank, abrogando quella sanitaria, riducendo il carico fiscale, e indebolendo i sindacati. Nulla di nuovo sotto il sole quindi. Ma il fatto che anche i repubblicani parlino di disuguaglianza economica come di una grave afflizione che va affrontata e risolta, è già di per sé un fatto storico.

NEWSLETTER


Autorizzo trattamento dati (D.Lgs.196/2003). Dichiaro di aver letto l’Informativa sulla privacy.



LEGGI ANCHE: