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sab 11 marzo 2017

EL RAVAL, L’ALTRA FACCIA DELLA GENTRIFICATION

Il fenomeno della gentrification di solito è giustificato da un senso di inevitabilità, di fisiologia della trasformazione. Ci sono però dei casi virtuosi come El Raval, a Barcellona, dove le esigenze che spingono dal basso trovano un accordo con quelle di una città in espansione. Succede quando i fili della gentrification vengono mossi da politiche pubbliche, secondo un criterio di pianificazione e non alla cieca, per mera speculazione privata.

“Raval” deriva dall’arabo antico Rabad, che significa qualcosa come “spazio al margine”. È quello che in effetti El Raval è stato molto a lungo: non fisicamente, essendo collocato nel cuore storico di Barcellona, ma in un senso più profondo. Qui è ambientato il Diario del ladro di Jean Genet (1949), storia di prostituzione e miseria, compiaciuta discesa in quelli che per il senso comune erano gli inferi. Allora la parte meridionale del Raval era popolarmente nota come Barrio Chino, per le pessime condizioni di vita che ricordavano le varie chinatown nel mondo. Oggi il Raval ha circa 50mila abitanti, è un luogo complesso, eterogeneo sul piano socio-economico e culturale, a sua volta diviso in una parte settentrionale e una meridionale, più diverse e lontane di quanto non dicano le mappe. Ci vivono abitanti storici che sono riusciti a restare, immigrati extra-europei (soprattutto al Raval Sud), creativi o comunque elementi della classe media che puntano a distinguersi (soprattutto al Raval Nord). Le strette strade medievali, recintate da quattro larghi viali, sono piene di turisti. Alcuni punti sono completamente in balia di ristoranti, gallerie d’arte, studi di designer. In mezzo c’è stata una grande operazione di gentrification, avvenuta tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Una gentrification controllata, avviata e diretta dall’alto, dove gli amministratori si sono comportati come artificieri che facessero brillare una bomba.
Un quartiere industrializzato, El Raval, fin dalla metà del Settecento, con soffocanti atmosfere dickensiane, per la straordinaria densità di popolazione e di spazi costruiti. L’esempio tipico della Ciutat Vella, la città vecchia, nello specifico catalano ma anche più in generale: un caos malsano, pericoloso, slegato da una pianificazione urbanistica. Appesantito dagli stigmi che semplificano, gettano una luce oscura e generano mala fama. Sgradevole per i suoi stessi abitanti, a loro volta non graditi da Barcellona. Se già a fine Ottocento si parla di sanare e riqualificare, per gran parte del Novecento il Raval continua a essere un quartiere povero e dimenticato. Quartiere operaio, fortemente politicizzato, dove nascono i primi sindacati e le piccole industrie sopravvivono alla dislocazione dei grandi complessi industriali. Quartiere dall’aura bohemiènne, specialmente negli anni Venti, spazzata via dalla guerra civile e poi dal franchismo.
La svolta arriva negli anni Ottanta. Il franchismo è caduto, l’associazionismo del territorio si risveglia. È in questo quadro che una politica pubblica rigenerativa va a incontrarsi con le richieste degli abitanti storici e con una forte immigrazione extra-europea. Intervento dall’alto e spinta dal basso, appunto. L’amministrazione favorisce l’arrivo di nuovi residenti di ceti medio-alti e si impegna a far restare i vecchi residenti dei ceti inferiori. A questo si aggiunge l’ondata migratoria che sceglie il Raval per riversarsi. Il fermento e le contraddizioni sono evidenti. Nello stesso 1987, Fernando Botero dona un’enorme scultura in bronzo al quartiere, che parallelamente protesta con la campagna Aqui hay gana (“Qui c’è fame”) per lamentare la propria marginalizzazione. Nel 1989 l’artista Keith Haring sceglie il Raval per dipingere il suo celebre murales che recita: “Tutti insieme possiamo sconfiggere l’AIDS”. Il tasso di disoccupazione è ancora il più alto della città. In quello stesso periodo, l’assegnazione delle Olimpiadi ’92 è un segnale importante del dinamismo della città. E non solo imprime un’accelerazione ma marca una nuova direzione dell’intervento e della scala: Barcellona smette di ragionare “per quartieri” e si apre a macroprogetti da finanziare anche con capitale privato. Alla fine degli anni Novanta, la metropoli catalana sorpassa Madrid come destinazione turistica.
Diversa è la gestione delle due anime del Raval, la parte settentrionale e quella meridionale più problematica. Si decide che la prima va “solo” riqualificata, nella chiave di una rifunzionalizzazione culturale, mentre l’ex Barrio Chino va proprio reinventato. Su tutto, domina il desiderio di una nuova rappresentazione: un volto nuovo per il quartiere brutto, sporco e cattivo. L’area nord del Raval vede sorgere, così, una miriade di istituzioni culturali. Spiccano il Centre de Cultura Contemporània de Barcelona (CCCB), inaugurato nel 1994, e soprattutto il Museu d’Art Contemporani de Barcelona (MACBA), progettato da Richard Meier e inaugurato nel 1995. L’idea è che facciano per il quartiere quello che il Centre Pompidou ha fatto per il Marais a Parigi. Il Raval sud cambia in modo ben più drastico. Liberazione di suolo con l’abbattimento di interi isolati ed edificazione di case popolari per rialloggiare i residenti. Incentivi per ristrutturazioni di edifici privati e pubblici. Creazione di nuovi spazi come piazze e giardini, e dotazione di strutture educative e ricreative.
Il fenomeno della gentrification di solito è incontrollato, giustificato da un senso di inevitabilità, di fisiologia della trasformazione. Ci sono però dei casi virtuosi, come questo, dove le esigenze che spingono dal basso trovano un accordo con quelle di una città in espansione. Succede quando i fili della gentrification vengono mossi da politiche pubbliche, secondo un criterio di pianificazione e non alla cieca, per mera speculazione privata. In questi casi è proprio l’amministrazione a inserire nuovi utenti e nuove funzioni in un’area della città, a sovrintendere al processo e tentare di renderlo sostenibile. Bisogna però necessariamente dire che il restyling del Raval ha avuto, insieme al coraggio, una dose di brutalità e di insuccesso. La demolizione della parte meridionale ha portato via edifici modernisti e pezzi di storia del Raval. Il rialloggiamento ha generato tensioni e proteste. Il nuovo volto del quartiere ha fatto lievitare i prezzi delle abitazioni e degli esercizi commerciali, escludendo e allontanando chi non poteva permetterseli.
L’albergo di lusso aperto nel 2008 e l’intera operazione dell’Illa Robador ha suscitato violente accuse di speculazione, anche per la totale estraneità al contesto. Parallelamente «El País» sosteneva che il Raval stesse “affondando come il Titanic in un mare di crimine violento e sesso per le strade”. Nel 2012 la prestigiosa Filmoteca de Catalunya ha spostato la sua sede nel Raval. Nella parte meridionale, non in quella settentrionale, il che sembra un segnale di discontinuità notevole rispetto al vecchio corso. Come se la differenza tra le due parti stesse venendo meno e il Raval andasse incontro a un futuro da distretto culturale e turistico. Dal giugno 2015 il sindaco di Barcellona è Ada Colau, sostenuta da una coalizione di movimenti e piattaforme sociali tra i quali c’è Podemos. Pochi mesi prima della sua elezione Colau, che viene da anni di battaglie contro la gentrification, dava un segnale d’allarme: “Ogni città che si sacrifica sull’altare del turismo di massa viene abbandonata dai suoi abitanti, quando non possono più permettersi alloggio, cibo e necessità quotidiane di base”.
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