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MONITOR


gio 25 maggio 2017

DISUGUAGLIANZE NELLE NOSTRE CITTÀ VERTICALI

I ricchi in alto, i poveri ai piani bassi: le strutture urbane raccontano le differenze di classe. Politica e identità sono quindi disegnate dalla nuova architettura sociale stratificata, che dalle miniere del Sudafrica risale attraverso le iceberg house di Londra, i palazzoni popolari delle periferie europee, si arrampica sullo skyline di Manhattan, lo supera e scavalcando jet privati ed elicotteri arriva fino ai satelliti che ruotano intorno al nostro pianeta. L’elevator index diventa ascensore sociale proprio quando, con la nascita dell’ascensore, ri-diventa cool vivere ai piani alti.

Quell’ambiente era stato costruito non per l’uomo, ma per l’assenza dell’uomo. James Graham Ballard, Il Condominio, 1975
A metà dell’Ottocento Chicago è una cittadina di frontiera con poco più di 30mila abitanti. Nel 1870 gli abitanti sono più di cento volte tanto, e Chicago è diventata una città industriale con un clima estremo, rigido e ventoso, le strade perennemente infangate: un’escrescenza purulenta circondata da paludi che favoriscono la trasmissione del colera e di altre malattie.
Nel 1871 Chicago è completamente distrutta da un incendio. Nel 1872 Chicago è la più grossa opportunità per palazzinari e speculatori della costa orientale. L’alto prezzo dei terreni edificabili, la disponibilità di acciaio e il suo facile trasporto attraverso la ferrovia, impongono alla città uno sviluppo ben preciso. Verso l’alto.
Alla fine dell’Ottocento Chicago è la città verticale.
La città dei grattacieli, delle industrie e del lavoro. Chicago è la città emblema della lotta di classe e del conflitto tra capitale e lavoro.
“A Chicago non cessa di stupire la straordinaria potenza rivoluzionaria, sovversiva del capitalismo, una potenza che è ancor lungi dall’esaurirsi”, scrive Marco d’Eramo ne Il maiale e il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro (Feltrinelli, 2004).
E dopo i grattacieli e i mattatoi, la Scuola di Chicago di sociologia urbana e la Scuola di Chicago del neoliberismo dei Chicago Boys che segnano il secolo breve, la fine di Chicago segna la fine di un’epoca. La fine del conflitto tra capitale e lavoro. La fine della lotta di classe.
Restano solo i grattacieli: il luogo della nuova lotta di classe dove, parafrasando Ralf Dahrendorf, a essere assente non è l’autorità, ma l’uomo.
I grattacieli non sono più quelli di Chicago. Ma nemmeno quelli di Shangai e Kuala Lumpur, di Rio de Janeiro e Luanda. La lotta di classe non si è trasferita da una città all’altra, è scomparsa.
I grattacieli oggi sono quelli che in Inception (2010) di Cristopher Nolan prima si curvano e piegano alla volontà dell’uomo, poi si sgretolano e smaterializzano quando nemmeno l’uomo c’è più. I grattacieli oggi sono quella imponente catena montuosa di edifici di cemento, acciaio e vetro – mai abitati dall’uomo – che puntellano la Costa del Sol in Spagna lungo l’Autopista 7, l’autostrada (fantasma) del Mediterraneo.
Prosperavano sul rapido avvicendarsi delle conoscenze, sullo scarso coinvolgimento con gli altri, sulla totale autosufficienza di una vita che, non avendo bisogno di nulla, non poteva patire delusioni. In alternativa, le loro reali necessità avrebbero potuto affiorare in seguito. J.G. Ballard, Il Condominio, 1975
Negli anni Novanta, quando esce Città di Quarzo di Mike Davis (Manifestolibri, 1999), il paradigma urbanistico è mutato rispetto ai primi studi su Chicago.
La Scuola di Los Angeles demolisce il carattere determinista e naturalista della Scuola di Chicago, cominciando a portare a galla come fattori determinanti nello sviluppo di una città sia la struttura del potere politico ed economico sia la sovrastruttura delle relazioni politiche e delle interazioni sociali. Davis racconta la Los Angeles delle enclave, di come la tecnologia militare e la paranoia securitaria abbiano frammentato le città nei ghetti per i sottoproletari e nelle gated communities per le elite.
Questa ossessione paranoica è descritta magnificamente nel film di George A. Romero La terra dei morti viventi (2005). Pittsburgh è una città fortificata, dove sviluppi urbanistici e militari vanno di pari passo, al cui centro sorge un’altissima torre dove regna il sovrano e abitano i ricchi. Fuori è terra degli zombie, dei morti viventi. Dei sottoproletari. Come in ogni film di Romero, è difficile in realtà stabilire chi sia più morto.
Oggi la nuova Pittsburgh di Romero è diventata Londra, scrive Stephen Graham in Vertical: The City from Satellites to Bunkers(Verso, 2016).
Nel recensirlo su The Guardian, Andy Beckett, racconta di un grottesco litigio condominiale tra il direttore della Tate Modern e gli inquilini dei nuovi grattacieli che la circondano, si lamentano perché il nuovissimo decimo piano del museo si affaccia sulle loro vetrate, offrendo così ai visitatori una mostra delle atrocità non prevista dal biglietto di entrata: guardare dentro gli appartamenti dei nouveaux riches londinesi.
La capitale britannica è l’alfiere del nuovo sviluppo verticale, scrive Stephen Graham. Quello senza l’uomo. Quello dove è difficile stabilire chi è più morto. Lo sviluppo verticale contemporaneo secondo Graham ha una doppia direzione. La prima è la consueta “appropriazione del cielo da parte delle élite”. Il classico sviluppo verso l’alto che dalle ziqqurat della Mesopotamia alle stupa buddiste, dalle torri medievali ai grattacieli di Chicago, è la rappresentazione plastica dell’eterna “lotta di classe condotta dall’alto”.
Questa architettura sociale si combina con il nuovo paradigma dell’autoesclusione ben descritto da Mike Davis. E così succede che la razza padrona cerchi edifici tanto più alti quanto più fortificati e autosufficienti, abbandonando i vecchi grattacieli dalle protezioni scadenti all’invasione degli esclusi. Come ben raccontato dalla storia del Centro Financiero Confinanzas, immenso edificio di 190 metri e 45 piani nel centro di Caracas occupato da centinaia di famiglie che si sono autorganizzate dal basso per i servizi essenziali, prima dello sgombero di due anni fa.
Più la vita nel grattacielo diveniva arida e priva di affettività, maggiori erano le possibilità offerte. Attraverso la sua notevole efficienza, il grattacielo assolveva al compito di preservare la struttura sociale che li sorreggeva tutti […]  Per molti versi, il grattacielo era il perfetto modello di tutto ciò che la tecnologia aveva fatto per rendere possibile l’espressione di una psicopatologia autenticamente libera. J.G. Ballard, Il Condominio, 1975
La seconda direzione dello sviluppo verticale contemporaneo è però, per certi versi, ancor più sorprendente. Utilizzando ancora la tecnologia militare, combinata con l’ossessione per la sicurezza, Stephen Graham racconta come nel 2014 al catasto del quartiere di Kensington and Chelsea, l’enclave dei miliardari che preferiscono la brulicante vita londinese alla placida quiete dei suburbi, siano state presentate oltre 450 richieste di ampliamento e sviluppo di cantine e seminterrati.
E’ il concetto della iceberg house. Lo sviluppo verticale sotterraneo dei palazzi georgiani di stucco bianco di Belgravia. Si scava in verticale, ma verso il basso, e si costruiscono camere e  bagni, ma soprattutto palestre, cinema, parcheggi, piscine, sale riunioni: tutte rigorosamente private e a uso esclusivo del padrone di casa, tutte rigorosamente iper protette dai più moderni sistemi di mappatura militare.
Politica e identità sono quindi disegnate dalla nuova architettura sociale stratificata, che dalle miniere del Sudafrica risale attraverso le iceberg house di Londra, i palazzoni popolari delle periferie europee, si arrampica sullo skyline di Manhattan, lo supera e scavalcando jet privati ed elicotteri arriva fino ai satelliti che ruotano intorno al nostro pianeta. L’elevator index diventa ascensore sociale proprio quando, con la nascita dell’ascensore, ri-diventa cool vivere ai piani alti.
Nel libro di Graham appare però chiaro che, parafrasando Luciano Gallino la lotta di classe non è più quella di Chicago dello scorso millennio, dei proletari contro i padroni dei mezzi di produzione, ma è oggi quella dei vincitori contro i perdenti, delle elite contro le masse.
E i piani alti hanno vinto.
La risalita dell’edificio, come preconizzava James G Ballard ne Il Condominio (Mondadori, 1976), nulla ha a che fare con l’ascesa o l’ascensore sociale in queste isole di cemento (o acciaio, o vetro) autosufficienti e militarizzate, ma solo con la possibilità di sfogare pulsioni primitive. In un ritorno a questa violenza brutale che Stanley Kubrick in 2001, Odissea nello Spazio (1968) pone all’inizio e alla fine dei tempi.
Perché quando nel 2001 Mohammed Atta dirige l’attacco verso le Torri Gemelli lo fa per molteplici motivi. Uno di questi, ricorda Graham, è che Atta, laureato in architettura a Il Cairo e specializzato ad Amburgo, era un urbanista conservatore: odiava lo sviluppo verticale e le altissime torri.
La nuova architettura verticale ci racconta quindi non l’ultimo sviluppo dell’uomo, ma la sua assenza.

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