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ven 16 febbraio 2018

DILLINGER È MORTO

«La rapina in banca è senza dubbio il crimine più socialmente invidiato. I rapinatori sono, infatti, i criminali più amati e che riscuotono la maggiore simpatia dell’opinione pubblica». Ma non è solo una questione di soldi facili. Jesse Woodson James agisce alla fine della Guerra di Secessione. La continua con altri mezzi. Incarna la mitologia della vendetta, impersona il mito della frontiera, lo supera. Entra nella leggenda. Trascende nella rappresentazione di Robin Hood. John Herbert Dillinger Jr. agisce durante la Grande Depressione. La combatte. Fa sua la famosa frase di Bertolt Brecht per cui “è più criminale fondare una banca che rapinarla”. Ci avverte che gli istituti di credito, nella finanza di Wall Street, sono i veri rapinatori. Ci ammonisce di riprenderci quello che è nostro. Eppure, oggi, Dillinger è morto.

«Dillinger è morto».
È scritto su un vecchio giornale, datato 23 luglio 1934. Il giornale è l’involucro di una pistola, altrettanto vecchia, a tamburo, arrugginita. Se nel racconto appare una pistola, diceva Cechov, prima o poi sparerà.
Giacca e cappotto di ottima fattura, cuciti su misura da abili mani sartoriali. Cappello di foggia elegante, sempre abbinato al vestito. Modi gentili, sguardo affascinante, eloquio affabulatorio. Dillinger è l’eroe che tutti, anche solo per un giorno, hanno sognato di essere.
John Herbert Dillinger Jr., compiuti vent’anni, rapina la drogheria sotto casa. Il negozio di Frank Morgan, che conoscevano tutti in quella piccola cittadina dell’Indiana, Mooresville.
«Un incrocio e un semaforo nel mezzo. Una via centrale con una fila di botteghe, un ufficio postale, una chiesa. E, di lato, una dozzina di strade fiancheggiate da filari d’alberi d’acero che, di nuovo, si perdono nella campagna…». Scriverà più tardi, quando tutto è finito, James Finan, inviato del «New Yorker».
Nato e cresciuto in città, a Indianapolis, quartiere di Oak Hill, tra furtarelli e borseggi, a Mooresville vi si era trasferito da pochi anni, al seguito del padre, dopo aver provato l’arruolamento in Marina, congedato con disonore.
A Mooresville ci torna dopo dieci anni trascorsi nell’Indiana State Prison di Michigan City. Il 10 maggio del 1933. A 29 anni, un terzo dei quali passati in carcere. Ci torna solo per salutare Frank Morgan, poi se ne va.
John Herbert Dillinger Jr. diventa il rapinatore più famoso di tutti i tempi. In un solo anno, dal 1933 al 1934, imbracciando un mitra Thompson, svuota almeno tredici banche in giro per il Midwest.
Prima di Dillinger c’era Jesse James.
Jesse Woodson James non ha nemmeno quindici anni quando viene torturato dai soldati nordisti nella sua casa di Clay County, Missouri, vicino a dove oggi sorge la cittadina di Kearney. È il 1862. Jesse James decide di continuare a combattere, anche quando la guerra è finita. Svaligia banche, assalta treni e diligenze.
«La rapina in banca è senza dubbio il crimine più socialmente invidiato. I rapinatori sono, infatti, i criminali più amati e che riscuotono la maggiore simpatia dell’opinione pubblica». Scrive Klaus Schönberger in La rapina in banca. Storia. Teoria. Pratica. (Derive e Approdi, 2003)
Ma non è solo una questione di soldi facili.
Jesse Woodson James agisce alla fine della Guerra di Secessione. La continua con altri mezzi. Incarna la mitologia della vendetta, impersona il mito della frontiera, lo supera. Entra nella leggenda. Trascende nella rappresentazione di Robin Hood.
John Herbert Dillinger Jr. agisce durante la Grande Depressione. La combatte. Fa sua la famosa frase di Bertolt Brecht per cui “è più criminale fondare una banca che rapinarla”. Ci avverte che gli istituti di credito, nella finanza di Wall Street, sono i veri rapinatori. Ci ammonisce di riprenderci quello che è nostro.
«Quello che noi abbiamo è quello che ci siamo presi. E quello che ci siamo presi è solo una piccola parte di quello che noi abbiamo occupato».  Cantano gli Assalti Frontali, Terra di Nessuno, 1992.
Sono molti i rapinatori che hanno incendiato l’immaginario del secolo scorso.
Agivano da soli, magari in sporadiche alleanze con altre bande, come Alvin Karpis. O in coppia, come Bonnie Elizabeth Parker e Clyde Chestnut Barrow, passati alla storia come “Bonnie e Clyde”. Si dedicavano alla bella vita in riviera, tra feste, grandi alberghi, belle donne e fiammeggianti macchinone, come Luciano Lutring.
Soprattutto, erano dei meravigliosi artigiani.
Rapinare una banca non è facile. Lo racconta Micheal Mann, nel suo fulminante esordio hollywoodiano Thief (Strade Violente, 1981) in cui un maestoso James Caan interpreta Frank, un ladro di gioielli meticoloso e diligente che si dedica al suo lavoro con certosina applicazione: la pianta della banca, gli allarmi, il tipo di cassaforte, gli strumenti necessari per aprirla, i tempi in cui stare, le vie di fuga, gli imprevisti.
Un ritratto assai differente rispetto al bandito improvvisato, romantico e galantuomo. Uno come Horst Fantazzini, che entrava disarmato, o con una pistola giocattolo, e chiedeva «per favore, mi dia i soldi».
«Questa è una rapina, quattro parole convincenti. Un tipo di enunciato che i semiologi chiamano “illocutorio”: “illocutorio” è un gesto linguistico che realizza una situazione per il semplice fatto di essere proferito. Così quando Horst Fantazzini diceva con convinzione: “questa è una rapina”, i soldi fluivano allegramente dalla cassaforte alle sue tasche. Lui ringraziava cortesemente e via». Scrive Franco Bifo Berardi nel ricordarlo.
Horst Fantazzini era un militante anarchico, figlio di un partigiano. Nato in Germania, decide di rapinare le banche per ripercorrere le gesta di Jules Bonnot, agitatore, militante e sindacalista anarchico – autista di Sir Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes – che nei primi anni dello scorso secolo politicizza la rapina insieme ai compagni della Banda Bonnot.
Riprendersi i soldi, e il plusvalore estratto dalla borghesia capitalista. Riconquistare i gioielli, e il tempo rubato dal lavoro. Scontrarsi con le guardie, e con i difensori dell’ordine costituito. Far saltare in aria la cassaforte, e la gabbia dello status quo.
Seminare il terrore per piantare i semi della coscienza di classe. Anche qui c’è Brecht. I suoi studi sull’opera d’arte che deve produrre alienazione, interrogare lo spettatore sul suo ruolo sociale attraverso il gestus. La rapina per la Banda Bonnot è un gesto brechtiano.
Quando nel 1968 una nuova generazione decide di dare l’assalto al cielo, la rapina in banca torna ad avere un ruolo politico.
È sempre più sottile la linea che separa i colpi della vecchia ligéramilanese con l’autofinanziamento dei gruppi extraparlamentari. O le batterie criminali che, sfuggendo a ogni catalogazione sociologica e criminologica, impazzano negli anni Settanta nel triangolo industriale Genova-Torino-Milano, raccontate da Emilio Quadrelli in Andare ai resti (Derive e Approdi, 2004)
«Avevo il diritto di viverla, quella felicità. Non me lo avete concesso. E allora, è stato peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti. Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti sì, ma in ogni caso nessun rimorso». Scrive su un quaderno a quadretti Jules Bonnot, come riporta Pino Cacucci nel suo romanzo In ogni caso nessun Rimorso (Feltrinelli, 2001).
Sull’esempio dei Tupamaros, guerriglieri marxisti-leninisti del Movimiento de Liberación Nacional uruguagio, che distribuivano parte della refurtiva delle rapine ai poveri e i bisognosi di Montevideo, così anche i colpi messi a segno dalle bande della sinistra extraparlamentare si muovevano tra autofinanziamento ed esproprio proletario.
C’è anche l’estrema destra.
«Come soggiogare il denaro, combattendolo? Come sottrarmi alla sua influenza e alla sua tirannia, senza evitare lo scontro con esso? Il procedimento era uno solo: guadagnarlo, guadagnarlo in quantità sufficiente da non sentirne il bisogno; e quanto più ne avessi guadagnato, tanto più sarei stato libero da tale bisogno», scrive Fernando Pessoa, ne Il banchiere anarchico (1922).
In una mattina di luglio del 1987, Valerio Viccei entra ed esce con estrema tranquillità dal Knightsbridge Deposit Centre di Brompton Road. Ci mette circa un’ora. Ha portato via una refurtiva spaventosa tra soldi, preziosi e titoli: 40 milioni di sterline, 140 miliardi di lire.
È la rapina del secolo.
C’è dell’altro, confesserà anni dopo. Una cassetta di sicurezza in particolare. Conteneva dei documenti sul caso Calvi che andavano fatti sparire. Era quello l’obiettivo della rapina del secolo.
Valerio Viccei, una militanza nei Nar con Mambro e Fioravanti, il sodalizio con il temibile Gianni Nardi, i legami con Gladio, le Stragi di Stato.
Stesso curriculum di Massimo Carminati. Stessi collegamenti. Stessi misteri.
Nel 1979 Massimo Carminati partecipa con i Nar alla rapina della Chase Manhattan Bank di piazzale Marconi all’EUR. Nel 1999 svuota le cassette di sicurezze del Tribunale di Roma di Piazzale Clodio. Porta via un bottino quantificabile in 18 miliardi di lire. Porta via una serie di documenti che saranno decisivi nella costruzione di quella ragnatela di interessi politici ed economici che esploderà un decennio dopo sotto il nome di Mafia Capitale.
Una domenica di dicembre 2004 un commando sequestra le famiglie di due dirigenti della Northern Bank di Belfast. Il lunedì i due dirigenti aiutano i rapinatori a caricare sul camion sacchi contenenti 27 milioni di sterline, 40 milioni di euro. Forse è stata l’Ira, forse i paramilitari.
Sono crollate le certezze politiche, tutto è più confuso. Nebuloso.
Dillinger è morto. Nasce Carbanak. La rapina 4.0. Il denaro si volatilizza. La moneta scompare. I rapinatori si smaterializzano.
Carbanak è un sistema di virus informatici che uno o più gruppi di hacker avrebbero inoculato in banche e istituzioni finanziarie, riuscendo a sottrarre 1 miliardo di dollari prima di essere fermati, virtualmente, dalla compagnia anglo-russa Kaspersky Lab.
Dillinger è morto. La rapina in banca no.

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