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MONITOR


lun 23 gennaio 2017

DAVOS, DAL CLUB AL CIRCO

Se Wall Street sale sul carro della nuova Amministrazione, a Davos si palesa la frattura tra Washington Consensus e Beijing Consensus. Così, a Occidente, comincia a eclissarsi il capitalismo della "rule of law" e della preminenza del diritto privato, dilaniato politicamente da vere e proprie voragini in termini di adesione alle forze conservatrici. Al contrario, a Levante sorge una versione del mercato programmata, non democratica, dove prevale il diritto pubblico e in cui farebbe capolino Adam Smith

L’ultimo appuntamento del World Economic Forum di Davos ha restituito l’immagine plastica di una crisi. I cantori del Washington Consensus e gli alfieri «di una singola economia globale» balbettano, ormai incapaci di recitare dogmi o dispensare ricette davanti alle epocali cesure politiche che dalla Londra della Brexit all’“America First” di Donald Trump, passando per il montare dell’ondata sovranista in Europa, scuotono gli equilibri planetari maturati negli ultimi vent’anni. Mentre a Davos iniziavano i lavori del WEF, Theresa May indicava l’uscita “hard” della Gran Bretagna dal mercato unico continentale. A stretto giro, il nuovo inquilino della Casa Bianca le faceva eco, rivendicando la priorità di ciò che è americano (dalle merci ai lavoratori) e assestando un altro colpo alle fondamenta della cosiddetta “globalizzazione”.
Grande è la confusione sotto il cielo.

C’era una volta a Davos…

Eppure non è sempre stato così.
Luciano Gallino lo chiamava il «partito di Davos», sottraendo gli appuntamenti del World Economic Forum alla sfera di un presunto sapere tecnico per ricollocarli nella dimensione delle scelte di campo e della partigianeria: dunque, nel cuore del politico e al centro della lotta di classe. E non fa tanta differenza che per il sociologo torinese la parola “partito” non andasse presa in senso stretto.
A considerare le ricette prodotte dai circa tremila individui, che con cadenza annuale si incontrano nella cittadina svizzera, era possibile osservare il plenum di un’organizzazione politica informale, il vertice di un’Internazionale del capitale, il congresso del braccio operativo di quella che veniva chiamata «classe globale; classe dominante globale; classe capitalistica transnazionale; iperclasse».
“Classe”: un’altra parola dal sapore antico che oggi viene sostituita da formule come “élites”, “alto” o “l’1% dell’1% più ricco del pianeta”.
Al “partito di Davos” appartengono capi di governo, alti esponenti degli esecutivi nazionali, vertici delle corporations, economisti e politologi.
A loro competeva la definizione di una costituzione materiale globale i cui principi-cardine presupponevano il ritirarsi dello Stato «da ogni settore della società (formazione, sanità, previdenza, ecc.)» e il rimuovere «ogni ostacolo alla libertà di circolazione dei capitali e dei servizi finanziari; di erogazione del credito; di svolgimento di qualsiasi tipo di transazione finanziaria, sia essa coperta o no dai relativi fondi; di determinazione del prezzo di qualsiasi merce ivi inclusi denaro (il cui prezzo è l’interesse), lavoro, terreno, opere intellettuali e altro».
A Davos si celebrava la messa cantata di una religione monoteista la cui divinità era l’investitore societario globale.

«Erano i tempi migliori, erano i tempi peggiori»

Quando nel dicembre 2001 la Repubblica popolare cinese entrò nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), in pochi potevano prevedere che, quasi due decenni più tardi, proprio Pechino avrebbe assunto un ruolo di garanzia degli equilibri globali, mentre dall’estremo Occidente americano – ostaggio delle paure della rust belt – si sarebbero levate le sirene del protezionismo.
Davos ha rappresentato quest’imprevedibile discontinuità che se da un lato potrebbe alludere al definitivo tramonto del New American Century e all’inizio del “Secolo cinese” con un cambio di guardia ai vertici del mondo globalizzato, dall’altro non può essere semplicemente ridotto a un’alternanza nel ruolo di Paese-guida: dalle stelle bianche della bandiera statunitense a quelle gialle su campo rosso del vessillo di Pechino.
Non è da escludere, infatti, che l’eventuale globalizzazione a trazione cinese potrebbe assomigliare più a un soft power in un contesto multipolare, nel quale viene garantita la libera circolazione di merci e capitali senza dazi, che a un nuovo corso dal piglio imperiale e dall’aggressività egemonica come nella versione americana.
Tuttavia, al netto delle previsioni, di certo ci sono le parole del presidente cinese Xi Jinping. «Alcuni accusano la globalizzazioneeconomica» per il «caos» in cui viviamo oggi, ma molti problemi attuali, dalla crisi dei rifugiati in Europa alla crisi finanziaria di dieci anni fa «non sono stati causati da essa», ha ammonito, ricordando al contempo come «l’economia globale è l’enorme oceano dal quale nessuno può tirarsi fuori completamente».
Anche sul protezionismo Xi non si è nascosto dietro diplomatiche reticenze individuando i rischi di una stagione che, con un rimando allo scrittore inglese Charles Dickens, ha definito “i tempi migliori e i tempi peggiori”: «Dobbiamo dire no al protezionismo che è chiudersi dentro una stanza buia. Vento e pioggia possono pure restare fuori, ma resteranno fuori anche la luce e l’aria. Nessuno uscirebbe vincitore da una guerra commerciale».
Alle parole di Xi Jinping ha fatto eco Jack Ma. «Non è stata la Cina a rubarvi il lavoro», ha ricordato il fondatore di Alibaba, colosso del commercio elettronico, nel rivolgersi a interlocutori statunitensi. «Le aziende americane si sono arricchite immensamente tenendosi la proprietà intellettuale e la tecnologia, e mollando la manifattura a Cina e Messico».
E le domande del tycoon asiatico schiudono gli scenari di un inquietante what if: «Dove sono finiti i miliardi di profitti delle industrie della Silicon Valley? Dove sono finiti quei soldi? 14,2 triliardi sono andati a finanziare 13 guerre all’estero. 19,2 triliardi sono stati bruciati da Wall Street nella crisi del 2008. Cosa sarebbe successo se voi americani li aveste investiti in industria, educazione, infrastrutture?».

Adam Smith a Pechino

Ma a Manhattan non sembrano particolarmente preoccupati: né dell’insediamento di Donald Trump né del vento asiatico che spira impetuoso su Davos. La ricerca di una mediazione tra Wall Street e il nuovo presidente è tutt’altro che una missione impossibile, come attesta la composizione della nuova Amministrazione in cui siedono esponenti dell’alta finanza e del comparto militare-industriale.
Nei grattacieli delle grandi banche d’affari si esulta parafrasano il motto di The Donald: Make Wall Street Great Again.  Coloro che tifavano per Hillary non solo non portano i segni della sconfitta, ma vivono uno stato di euforia dimenticato da anni.
Si parla di riduzione di controlli e vincoli patrimoniali meno stringenti. Si ipotizza addirittura la cancellazione del Dodd-Frank Act voluto dall’amministrazione Obama e volto sia a regolare il sistema finanziario sia a tutelare i consumatori attraverso la regolazione di settori legati ai mutui o al credito al consumo. In patria, i bankers del partito di Davos si assolvono, derubricando l’apocalisse del 2008 a crisi esogena. E così adesso sarebbe il tempo di ripristinare i canoni d’estrazione finanziaria del passato. I grandi gestori del risparmio si preparano ad aumentare l’esposizione sui mercati azionari. “Trump is good for business” è il mantra. Il tutto alla faccia dell’incendiaria retorica del candidato repubblicano che durante la campagna per le presidenziali tuonava contro l’establishment.
All’eccitazione di Wall Street fanno da contraltare le inquietudini di Christine Lagarde per la crescita delle diseguaglianze mondiali come certificato dalla recente pubblicazione del rapporto Oxfam. La Ong britannica ha restituito una devastante fotografia delle iniquità con gli otto più ricchi del pianeta a detenere una ricchezza pari a quella di 3,6 miliardi di donne e uomini.
Non manca un elemento farsesco nelle preoccupazioni del Fondo monetario internazionale, braccio armato del Washington Consensus e ispiratore della Troika che, nel 2015, rovesciò le libere decisioni del popolo greco. Perché la semina lunga trent’anni di riforme del lavoro, compressione al ribasso di redditi e salari, vessazioni dei Paesi indebitati, smantellamento del welfare, politiche contrarie alla progressività fiscale e diktat dell’austerity, non poteva produrre se non questi effetti: polarizzazione sociale e rabbia.
Se Wall Street sale sul carro della nuova Amministrazione, a Davos si palesa la frattura tra Washington Consensus e Beijing Consensus.
Così, a Occidente, comincia a eclissarsi il capitalismo dellarule of law e della preminenza del diritto privato, dilaniato politicamente da vere e proprie voragini in termini di adesione alle forze conservatrici o socialdemocratiche e ai sostenitori del cosiddetto «estremismo di centro».
Al contrario, a Levante sorge una versione del mercato programmata, non democratica, dove prevale il diritto pubblico e in cui – come sosteneva l’economista Nanni Arrighi – farebbe capolino Adam Smith, strappato agli apologeti della mano invisibile del libero mercato, al ruolo di antenato dei Chicago boys, e collocato nella suggestiva funzione di teorico di una via non “capitalistica” (nell’accezione classica) all’economia di mercato.
Se in Cina esiste una cornice chiara nella quale il mondo del business deve operare e alla quale non può sottrarsi, sulle sponde dell’Atlantico – nel dispositivo neoliberale radicalizzatosi dopo il great crash di fine anni Zero – la politica si piega alle leggi economiche, la democrazia è svuotata di sostanza, il risultato delle tornate elettorali viene spesso ribaltato da esigenze finanziarie e la rule of law è un bluff, perché perfino il diritto privato può essere sacrificato all’occorrenza. La paura che monta nei confronti della Cina è direttamente proporzionale alla disgregazione del modello occidentale, alla crisi dell’egemonia americana, e all’insicurezza che da ciò scaturisce.
A forza di pianificazioni, il colosso asiatico si trova esattamente dov’era stato programmato che fosse: le zombies factory stanno chiudendo, la domanda interna cresce, Pechino matura una relativa indipendenza energetica grazie allo shopping incessante in Sud America e Africa, mentre si registrano addirittura pallidi interventi in materia di sostenibilità ambientale.
Il modello della rule of law è ormai spurio. Il “neoliberismo” è un non-modello che fa di necessità virtù, usando muscolarmente le leve pubbliche quando il diritto privato fallisce per poi tornare a demolire le fondamenta del pubblico al volgere della fase. Viene da chiedersi cosa penserebbe un teorico neoliberale come Friedrich Von Hayek davanti a tutto questo.
Non è sicuro che Davos 2017 sia l’alba dell’egemonia cinese, ma è certo che rappresenta il referto autoptico del Washington Consensus.
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