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MONITOR


mer 14 dicembre 2016

QUANDO I DATI SONO IL NUOVO CAPITALISMO

Oggi il campo dell’interazione sociale e il dominio del profitto si sovrappongono. Il capitalismo mette al centro un’immensa massa di dati, dipende dai dati perché attraverso essi genera ricchezza. Combatte per la sua stessa sopravvivenza ed entra così nella nostra vita sociale. Senza cedere a teorie complottiste o a visioni nefaste per il futuro, è fondamentale avviare una riflessione collettiva. Se la connessione è la nostra medicina, ma anche il nostro veleno, bisogna ribaltare il paradigma e rinegoziare la nostra libertà, perché da Google a Facebook è il “click capital” - così definito da Morozov - che conta e che de facto soggettivizza gli attori sociali della rete. Pochi colossi si appropriano dei nostri comportamenti, e dei nostri vizi e piaceri in rete fanno virtù (a beneficio loro)

Il paradigma è l’algoritmo del capitale. La percezione di una minaccia è il nuovo progresso. Nel futuro dove la tecnologia diventa croce dei lavoratori e delizia del capitale, dell’idea stessa di progresso si appropriano in pochi. Siamo all’alba di quella che è stata definita “Quarta rivoluzione industriale” o “rivoluzione industriale 4.0”. Oggi è la porta d’accesso a quella dimensione. E l’unico modo per non rifiutare la tecnologia ed evitare nel contempo che manipoli i nostri giorni a venire, è guardare in faccia i meccanismi che qui e ora alterano già le nostre percezioni. Da La vita come un algoritmo
Ogni giorno affidiamo a Google le nostre ricerche. Razionalizziamo il nostro bisogno e lo traduciamo in parole chiave. La nostra curiosità o necessità di informazioni viene registrata, poi valutata, filtrata, profilata e infine conservata. In cinque passaggi il motore di ricerca immagazzina il nostro comportamento e lo traduce in dati che compongono la nostra identità digitale.

“Nostra” signora Internet

La nostra connessione è risorsa necessaria per internet. La rete è la base della nostra vita digitale. La nostra esistenza telematica è la benzina del nuovo capitalismo. I nostri dati sono beni che vengono messi a profitto. L’accumulazione del denaro avviene sotto le mentite spoglie della condivisione e delle nostre attività social. Il nostro non ci appartiene più, ma non è neanche collettivo.
Siamo davvero nell’era del post-capitalismo teorizzata dal giornalista Paul Mason? Ci troviamo in un limbo temporale, ed è arrivato il momento di ridefinire e rinegoziare il nostro spazio di libertà. Dentro e fuori la rete. «Il capitalismo non sarà abolito con una marcia a tappe forzate, ma grazie alla creazione di qualcosa di più dinamico, che inizialmente prenderà forma all’interno del vecchio sistema, passando quasi inosservato, ma che alla fine aprirà una breccia, ricostruendo l’economia intorno a nuovi valori e comportamenti. Lo chiameremo post-capitalismo», scrive Mason.
L’analisi del “qui e ora” ci impone di guardare all’ambivalenza di internet e delle tecnologie digitali: da un lato spazio orizzontale di libertà e dall’altro terreno di conquista dei grandi colossi e delle pratiche verticali di costruzione del consenso. Nelle parole delsociologo Evgeny Morozov, «le tecnologie digitali sono sia la nostra migliore speranza che il nostro peggiore nemico».

Dati a profitto

Oggi il campo dell’interazione sociale e il dominio del profitto si sovrappongono. Il capitalismo mette al centro un’immensa massa di dati, dipende dai dati perché attraverso essi genera ricchezza. Combatte per la sua stessa sopravvivenza ed entra così nella nostra vita sociale.
L’accumulazione del capitale si concentra su due aspetti: prima la raccolta e poi l’analisi dei dati.
Da Google a Facebook è il “click capital”, come definito da Morozov, che conta e che de facto soggettivizza gli attori sociali della rete. Pochi colossi si appropriano dei nostri comportamenti, e dei nostri vizi e piaceri in rete fanno virtù (a beneficio loro).
Cambiano così le relazioni tra individui, il rapporto tra istituzioni e persone, nascono nuove forme di lavoro. La sharing economy, regina della condivisione, è una faccia di quello che Arun Sundararajandella New York University’s Stern School of Business ha ribattezzato «crowd-based capitalism», «capitalismo della folla».
Risuona l’eco del Marx dei Grundrisse, e di quanti hanno ragionato sul ruolo della conoscenza accumulata nel capitale fisso, nelle macchine. Da queste premesse, il ragionamento prende in esame le occasioni di liberazione che la tecnologia ha posto in essere, modificando alla radice i modi di produzione e consumo, sovvertendo leggi antiche come quella che lega domanda e offerta o principi all’apparenza intoccabili  come la proprietà privata, la formazione dei prezzi attraverso il mercato, la condizione di scarsità, per lasciare spazio all’intelligenza sociale, all’attività in rete, al surplus d’informazioni, all’abbondanza, alla libera condivisione, al tempo liberato dalla prestazione d’opera, in un’esplosione di creatività e gioia inventiva. Da Il capitalismo è morto. Anzi no

Il prezzo da pagare per la “libera” rete

I nostri dati, e la tecnologia che li gestisce, sono anche e soprattutto una risorsa per combattere le logiche di dominazione, rappresentano uno strumento democratico e allargano la lente su un futuro in parte migliore.  Tutto, però, ha un prezzo. Il «prezzo della connessione è il capitalismo della sorveglianza», scrive Nick Couldry che insegna “Media, Communication e Social Theory” alla London School of Economics.
Shoshana Zuboff, autrice di “Big Other: Surveillance Capitalism and the Prospects of an Information Civilization” e docente ad  Harvard, parla di un vero e proprio processo di estrazione, mercificazione e controllo dei dati all’interno di un’architettura globale che si basa su una logica di accumulazione chiamata proprio «capitalismo della sorveglianza». Argomenta: «Alla domanda “chi partecipa?” la risposta è: quelli con il materiale, la conoscenza e le risorse finanziarie necessarie. Alla domanda “chi decide?”, la risposta è: l’accesso è deciso dai mercati basati sul controllo del comportamento. Questi sono costituiti da coloro che vendono l’opportunità di influenzare il comportamento a scopo di lucro e da coloro che acquistano tali opportunità. Così Google, per esempio, può vendere l’accesso a una compagnia di assicurazioni, e questa società acquista il diritto di intervenire in un loop di informazioni» che ci riguardano. Recentemente è successo con dei dati Facebook.

Una riflessione collettiva per non demonizzare internet

Ma laddove c’è potere, c’è anche resistenza – insegnava Michel Foucault. Per questo, senza cedere a teorie complottiste o a visioni nefaste per il futuro, è fondamentale avviare una riflessione collettiva. Se la connessione è la nostra medicina, ma anche il nostro veleno, bisogna ribaltare il paradigma e rinegoziare la nostra libertà.
Come? Se il nostro spazio libero si riduce perché qualcuno produce denaro dalle nostre attività in rete, la soluzione è la riappropriazione di ciò che ci appartiene. Morozov sostiene che l’unica via di uscita sia «rendere i dati un bene pubblico e non di proprietà di alcune grandi imprese», quindi fuori dal mercato.
Di sicuro, tornare indietro e demonizzare la tecnologia e la rete non è una scappatoia, anzi.
Quella telematica è un esperimento embrionale di democrazia dove i nostri comportamenti vengono registrati, analizzati e profilati per poi proporci prodotti (quasi) a nostra immagine e somiglianza. Non possiamo al momento evitare di produrre a nostra volta dati, tutti tracciabili.
Il meccanismo è il seguente, come sostiene Bruce Schneier, esperto di sicurezza e tecnologia nonché autore del libro “Liars and Outliers: Enabling the Trust Society Needs to Thrive”: «Il modello di business principale di Internet è costruito sulla sorveglianza di massa, e le agenzie di intelligence sono diventate dipendenti da tali dati. Capire come siamo arrivati qui è fondamentale per capire come rimediare al danno. I computer e la rete producono dati e le nostre interazioni costanti permettono alle aziende di raccogliere una quantità enorme di dati strettamente personali, su di noi e sulla nostra vita quotidiana. A volte si producono tali dati inavvertitamente, semplicemente utilizzando telefoni, carte di credito, computer e altri dispositivi. A volte diamo i dati direttamente a Google, Facebook, iCloud e così via in cambio di qualsiasi servizio. L’NSA [National Security Agency Usa] fa parte del business dello spiare tutti e ha capito che è molto più facile raccogliere tutti i dati da queste società, piuttosto che direttamente da noi».
A questo punto, possiamo intervenire su due fronti di battaglia: stabilire come possono essere usati i nostri dati e chi può avervi accesso. Pur restando connessi.
Se la guerra era la continuazione della politica con altri mezzi, oggi la politica è la continuazione dell’agire comunicativo in altri ambiti. Senza cedere a posizioni apocalittiche, occorre ricordare che le rete è un luogo ambivalente, in cui alle pratiche di resistenza, liberazione e condivisione orizzontale corrispondono sempre, per contrasto, precise gerarchie di potere. Da Il server è un campo di battaglia

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