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MONITOR


mer 5 aprile 2017

CONTRO LA RIVOLUZIONE NEO-SOVRANISTA

La narrazione neo-sovranista ci racconta una società spaventata, che ha bisogno di ripararsi dietro parole d’ordine di facile comprensione e che vuole mandare via tutto quello che non capisce. Le parole d’ordine sono ‘sicurezza’, ‘tradizione’, ‘valori’ e ‘nazione’. È, però, del tutto evidente che un popolo senza punti di riferimento sta cercando risposte “semplici” per analizzare tempi complicati ma non privi di interesse. E queste risposte stanno dicendo anche un’altra cosa: la politica sta perdendo la sua battaglia con la Storia, e chi sta vincendo, della Storia, se ne sta facendo beffe.

Il 2016 è stato l’anno che ha decretato una quantomeno parziale riconfigurazione degli equilibri e una ridefinizione – questa sì, molto importante – delle dinamiche di rappresentanza politica.
Il “Butterfly Effect” che ha collegato eventi come la Brexit e l’elezione di Donald Trump, ma anche, per certi versi, l’emergere di figure di rottura dentro gli establishment di Sinistra come Jeremy Corbyn e Bernie Sanders, può essere letto in molti modi.
È, però, del tutto evidente che un popolo senza punti di riferimento sta cercando risposte “semplici” per analizzare tempi complicati ma non privi di interesse. E queste risposte stanno dicendo anche un’altra cosa: la politica sta perdendo la sua battaglia con la Storia, e chi sta vincendo, della Storia, se ne sta facendo beffe.

Prospettiva “lose-lose”

Quello che si sta delineando con sempre maggior insistenza è uno scenario “lose-lose”.
Da un lato ci sono i difensori dello status quo (dai conservatori fatti e finiti ancora convinti che la crisi del 2008 sia stata una variabile imprevista, ai post-progressisti folgorati sulla Terza Via e ormai pienamente nel reame del liberalismo più spinto).
Dall’altro i “barbari”, convinti che la risposta “semplice” sia una reazione viscerale, spaventata, psichiatrica verso la consolazione del Campanile, la sicurezza del recinto piccolo, l’agitato spettro della sovranità.

Laboratorio Francia 2017

Il simbolo di questo nuovo campo di battaglia è Parigi. Il 23 Aprile, primo turno delle presidenziali tra Emmanuel Macron, che ha salutato il partito socialista francese per fondare il suo movimento post-ideologico ma apertamente liberal borghese, e Marine Le Pen, campionessa di quella che è una vera propria ondata neo-sovranista.
Quello che ha perso di significato è proprio il dibattito partitico tradizionale, devastato tra scandali (a destra) e irrilevanza (a sinistra).
Marine Le Pen prepara questo momento da tutta la vita. Una sovranista che arriva dalla tradizione “fascista” che ha serie possibilità di sedersi all’Eliseo e governare la seconda potenza europea con parole d’ordine come ‘sicurezza’, ‘tradizione’, ‘valori’ e ‘nazione’. Parole d’ordine entrate prepotenti nel dibattito internazionale dopo anni di costruzione di un frame comunicativo (la cornice cognitiva che permette di identificare nella parola un’azione e un’idea politica chiara e relativa a una determinata parte politica) diventato vero e proprio manifesto.
A una globalizzazione che erode confini, connette persone, luoghi, soldi contraendo lo spazio e il tempo; si oppone una autentica internazionale neo-sovranista.
Qualora la scalata al desco più alto di Francia riuscisse, l’effetto domino sarebbe inevitabile. Magari non nell’immediato e con le conseguenze che ci si aspetta (probabilmente non avremmo immediatamente l’uscita di Parigi dall’Unione Europea), ma di sicuro dal punto di vista politico. Là dove ha iniziato Donald Trump, e dove molti altri stanno aspettando e “osservando”.

Tra “effetto carrozzone” e “rossobrunismo”

Lo shock politico potrebbe innescare un vero e proprio effetto bandwagon, quella dinamica che rende un processo inevitabile e che sposta la maggioranza (anche quella silenziosa) a supportare una causa anche senza una reale convinzione.
Lo shock culturale, invece, porterebbe a un nuovo stato dell’arte che attesta “la rivoluzione” – laddove per rivoluzione intendiamo l’abbattimento, per quanto nominale, dello status quo – come faccenda della peggiore destra. Lascerebbe in ulteriori macerie la sinistra riformista (sia quella liberale, alla Macron, sia quella socialista, alla Hamon) spingendo paradossalmente gli extraparlamentari in quella zona “di conflittualità” post-ideologica che alcuni definiscono “rossobrunismo”.
Sostenitori di Vladimir Putin, fanatici del ritorno alle monete nazionali e ai dazi doganali, teorici dell’Identità. Il fine – abbattere i potentati della globalizzazione – giustifica il mezzo, anche l’abbraccio che confonde due estremi.

Narrazioni alterate

Ovviamente è tutta una questione che tira in ballo il famigerato storytelling. Già negli anni Settanta Furio Jesi argomentava come non esistesse niente di simile a una “tradizione” secolare che giustificasse gli afflati sovranisti e le tendenze fasciste, definendo la “cultura di destra” il risultato di un ‘brodo’ in cui tutto veniva mescolato, usato, travisato per giustificare una posizione già sconfitta da qualsiasi Storia.
Una narrazione convincente, però, va oltre l’orizzonte della ragione. Soprattutto in quest’epoca storica dominata da dinamiche psichiatriche e “di pancia”, con i politici più interessati a guadagnarsi un consenso istantaneo sul tema del giorno che non a costruire una prospettiva e, anche, un’idea capace di posizionarsi nel mezzo tra l’attacco allo status quo e la sua difesa.
Ed ecco, quindi, che troviamo i neo-sovranisti in difesa degli esclusi dalla globalizzazione. Un ‘brodo’ in cui vengono usati Marx e Gramsci per opporsi al Capitale globale e finanziarizzato, attaccare Bruxelles e l’Euro per accattivarsi il ceto medio impoverito – il neo-proletariato privato del suo potere d’acquisto “a debito” e, quindi, incazzato con l’ordine costituito – e raccontarsi come ultimi paladini degli ultimi, ultimi difensori delle collettività minacciate dai dogmi liberali tra cui, curiosamente, anche la libertà personale.
Ed ecco, quindi, la narrazione all’attacco del “pensiero unico” sui diritti delle donne, dei migranti, degli omosessuali.
Tutto un grande complotto che vuole attaccare la “tradizione”, i “valori”, a cui bisogna rispondere con Make america great again, Au nom du peuple! senza considerare l’intera complessità del nuovo corpo sociale: dalla ridefinizione dei rapporti con il Capitale e con il potere alla nuova geografia della migrazione (con gli equilibri che si spostano verso le metropoli cinesi e indiane) e all’invecchiamento fisiologico della popolazione.
La rivoluzione neo-sovranista ci racconta una società spaventata, che ha bisogno di ripararsi dietro parole d’ordine di facile comprensione e che vuole mandare via tutto quello che non capisce. Una società che anziché andare avanti (anche superando lo status quo che ha mostrato incapacità di gestione di processi complessi sull’asse finanzia-sociale) “si rinchiude” con la rabbia cieca di chi non sogna un mondo nuovo, ma un modo in cui le cose restano ferme, immutabili, sicure, morte.

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