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MONITOR


sab 31 dicembre 2016

A COLLOQUIO CON UN ROBOT

Un algoritmo che seleziona i CV, un robot che si occupa dei colloqui. L'intelligenza artificiale a supporto dell'uomo nella selezione del personale. È davvero neutrale? Non proprio. Se è innegabile che ogni reclutatore di personale possa avere un pregiudizio inconsapevole, in quanto umano, è difficile verificare che automazione e algoritmi abbattano ogni rischio di errore.

«La prima cosa che balza alla mente quando viene menzionato il “progresso” è la prospettiva che sempre più posti di lavoro per gli esseri umani siano destinati a scomparire per essere sostituiti da computer e robot; come se si trattasse dell’ennesima collina ripida da oltrepassare nel corso di una battaglia per la sopravvivenza che ha necessariamente bisogno di essere combattuta» Da Intervista a Zygmunt Bauman, “Sedotti dalla cultura liquida”
La sessione dura venticinque minuti. Il colloquio consiste in 76 domande, alle quali dare risposte pertinenti e soprattutto convincenti.
Da un lato c’è il candidato a una specifica posizione, dall’altra parte c’è Matlda. Robot nella vita, cacciatrice di teste di professione, dai suoi 30 centimetri di intelligenza artificiale monitora anche le espressioni facciali di chi le siede di fronte, tiene sotto controllo ogni reazione. È stata programmata per azzerare il pregiudizio umano sul lavoro, almeno in teoria. Ne hanno scritto recentemente il “Financial Times” e il “Guardian”.
Il professor Rajiv Khosla, direttore del Research Centre for Computers, Communication and Social Innovation della La Trobe University, di Matlda è il “padre”: «Quando fai un colloquio faccia a faccia e hai dieci candidati, se ti è piaciuto il numero quattro, quando arriva il candidato numero sette la decisione è già stata presa, a meno che non abbia proprio qualcosa di eccezionale», diceal FT.
Secondo Khosla, empatia o calo di zuccheri a ridosso del pranzo possono condizionare una persona alle prese con la selezione di candidati, ma non un robot. Ergo, la selezione robotica sarebbe neutrale.
Quello che sfugge alla mente umana non può sfuggire a un algoritmo. Siamo sicuri? I posti di lavoro, i redditi, le abitudini sociali: l’intelligenza artificiale può davvero rivoluzionare la nostra vita. E non è detto che sia necessariamente in peggio. Il problema è che non ne conosciamo ancora il vero impatto, il pericolo è che si sostituisca all’autodeterminazione umana. Da La vita come un algoritmo
È davvero così? Se è innegabile che ogni reclutatore di personale possa avere un pregiudizio inconsapevole, in quanto umano, è difficile verificare che automazione e algoritmi abbattano ogni rischio di errore nella selezione.
In quanto programmati dall’uomo, i robot reclutatori riflettono il pregiudizio umano. Come fanno notare Gideon Mann e Cathy O’ Neil su Harvard Business Review, il processo di assunzione attraverso algoritmi è basato proprio sul concetto di discriminazione, dunque non è neutrale. Distingue, anche in base a genere, razza, età, disabilità.
Il punto è che già nella fase preliminare, ovvero quando vengono decisi i parametri di “scrematura” del software, esiste un pre-giudizio che può scartare anche ottimi candidati.
E ancora: alcuni programmi che prediligono i candidati con un CV pieno di un certo tipo di attività extra-lavorative de facto non si comportano in modo neutrale, ma scelgono (e discriminano) in base a classe, genere o età.
Altri programmi, come GapJumpers, sono stati inventati proprio per evitare disparità nella fase preliminare di selezione tra persone di sesso opposto o estrazione sociale diversa. Servono, cioè, ad evitare – grazie all’anonimato – che la prima scrematura dei CV sia influenzata da pregiudizi “involontari” che traspaiono dal luogo di nascita e università di provenienza.
Il problema, dunque, non è la tecnologia o l’automazione in sé. «Bisogna accettare che gli algoritmi sono imperfetti», scrivono Mann e O’Neil. Questo significa che le macchine e i robot hanno bisogno dell’intervento umano, perché l’intelligenza umana ha qualcosa di irriproducibile: la creatività. Non si sostituiscono all’uomo, ma lo aiutano.
Come in ogni tumultuosa fase di passaggio, se è certo ciò che ci si lascia alle spalle, non è altrettanto certo ciò che si ha davanti. E quando l’immagine dell’avvenire pare troppo nitida, sorge il dubbio che a renderla tale provveda un inganno prospettico. Ovvero, quel “reincantamento del mondo”, figlio di un certo feticismo tecnologico, di uno storytelling intriso d’ottimismo e di una concezione “mitico-utopica” dei paradigmi scientifici, che può ottenebrare persino il pensiero critico. Da Il capitalismo è morto. Anzi no

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