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gio 12 luglio 2018

COBRA KAI: LA RIVINCITA DEL SEQUEL

A più di un trentennio dalla pellicola culto Karate Kid, la serie web Cobra Kai ribalta l’immaginario di un’intera generazione e irrompe sulla scena come una vera e propria rivincita del sequel, in grado di raccontarci con dinamismo e originalità sorti e contraddizioni dell’America contemporanea.

A più di un trentennio dalla pellicola culto Karate Kid, la serie web Cobra Kai ribalta l’immaginario di un’intera generazione e irrompe sulla scena come una vera e propria rivincita del sequel, in grado di raccontarci con dinamismo e originalità sorti e contraddizioni dell’America contemporanea.
1984, il film Karate Kid muove dall’incontro tra Daniel Larusso, un sedicenne di origini italiane che si trasferisce con la madre dal New Jersey alla California, e il tuttofare dello stabile presso cui il giovane è andato ad abitare: un saggio e disponibile nippo-americano, originario di Okinawa, che risponde al nome di Kesuke Miyagi.
Sulla East Coast il protagonista si imbatte in un’America venata d’Oriente che, se ancora ignora i fasti marziali del Tarantino di Kill Bill, sembra già rinunciare al piglio reaganiano, malgrado ancora corrano i rutilanti e turbo-capitalistici anni di Monsieur Le Capital.
Ne viene fuori una pellicola che segna il trionfo dei buoni, sostenitori di una wave orientaleggiante, liberal e democratica, all’altezza di una fase del capitalismo più avanzata rispetto a quella dei Chicago boys, in cui il karate trasmuta in arma di emancipazione personale e affermazione sociale.
La famigerata “legge del pugno”, insegnata dall’antagonista del film John Kreese, un reduce del Vietnam riciclatosi in un maestro d’armi che fa della scorrettezza la sua filosofia marziale, non riuscirà ad avere la meglio sul karate esistenziale di quel Miyagi che fu in forza nell’esercito a stelle e strisce, durante la Seconda guerra mondiale.
Alla faccia del coevo Rambo, gli eroi del conflitto contro il nazismo avranno la meglio sugli scampati alla guerra imperialistica par excellence.
Così, grazie al suo mentore, Daniel Larusso trionferà, pronto a rivolgersi con speranza al futuro e dopo aver conquistato il rispetto degli avversari e l’amore della bella Ali.
Ma le carte future sono destinate a mischiarsi: “buoni” e “cattivi” stanno per scivolare al di là del bene e del male…
I ragazzi sono cresciuti, a trentaquattro anni da Karate Kid – la pellicola culto di John G. Avildsen che si impose sull’immaginario di un’intera generazione attraverso il duello tra il karate del dimesso ma puro Daniel Larusso e quello del belloccio e sleale Johnny Lawrence –, il nastro della storia continua a svolgersi.
Mentre i nerd nati nei primi Settanta cercavano il proprio equilibrio in maestri dagli occhi a mandorla e provavano a emulare, almeno una volta nella propria cameretta, la celebre posizione della “gru”, il mantra del «colpire per primo, colpire forte, nessuna pietà» veniva demonizzato e relegato a emblema di un bullismo alto borghese e WASP che il personaggio di John Lawrence fu costretto a veicolare, senza poterselo scrollare di dosso per oltre un trentennio.
Intanto, però, l’America cambiava…
Oggi, allora, la notizia dell’esistenza di una serie in dieci puntate (prodotta da YouTube Red Original, estensione a pagamento di YouTube che offre cinema e serialità, ma ancora non disponibile per il mercato italiano) che si intitola Cobra Kai e riprende le fila da dove Karate Kid ci aveva lasciato, suona a dir poco sorprendente, al punto da vincere le ritrosie dei puristi e immergersi nella visione, trascinati dalla fervente curiosità.
E bastano i primi due episodi (gli unici gratuiti) per rendersi conto di trovarsi davanti a un vero e proprio gioiello, capace di ri-declinare il mito in chiave contemporanea e senza sbavare di una virgola.
La carta vincente dell’operazione non è data solo dalla presenza degli stessi attori protagonisti della pellicola culto, e nemmeno dalla magistrale gestione del montaggio alternato – che utilizza le scene originali di Karate Kid per introdurre e mediare la narrazione.
Il punto è che Cobra Kai è un prodotto davvero innovativo, capace di rapportarsi alla serialità in maniera inedita e coraggiosa.
Innanzitutto è una web series purissima, concepita per youtuber e followeristi, rivolta ai giovani e in grado di adattarsi al loro linguaggio.
È un format che fin dalla prima inquadratura si tiene alla larga dal riadattamento barboso e autoriale, scegliendo invece di modulare il racconto mediante ruvidi interventi quasi fossero, appunto, “calci rotanti”, e inoltre opta per dieci puntate brevissime, della durata di ventisette minuti l’una, che non stancano mai e che alla bisogna si possono rivedere, tornando indietro per studiare le mosse della celebre arte marziale.
La scelta conferisce al prodotto un ritmo unico e vincente, convulso come una chat di WhatsApp, dissacrante come una gif, ma con un protagonista strappato a un’altra epoca.
John Lawrence, infatti, è un quarantacinquenne fallito che si confronta con il proprio passato e, quasi per caso, si trova a consumare una strana, surreale rivincita nei confronti del nemico di sempre, Daniel Larusso, ora divenuto – e qui c’è il primo grande ribaltamento – un businessman ricco e vincente.
Se il reaganiano Johnny è diventato un esponente di quella che viene definita white trash, pronto a ingrassare le fila degli haters made in Usa che hanno applaudito alla vittoria di Donald Trump, Daniel Larusso è diventato un borghese dagli atteggiamenti liberal, che vive finalmente nel lato giusto di All Valley, proprietario di un’affermata concessionaria e disconnesso dagli umori che schiumano nel ventre dalla società statunitense.
Fedele fuori tempo massimo all’american dream, al mito dell’opportunità concessa a tutti, Daniel fa prezzi stracciati e regala bonsai serializzati ad acquirenti danarosi, e intanto Johnny, là fuori, viene scambiato per un clochard e guida la stessa macchina rossa che aveva al liceo.
Eppure, tocca proprio a lui riconoscere il disagio dell’America dolente che ha mandato al tappeto le velleità tardo-clintoniane, mentre Daniel si profonde in slogan solitari nella sua casa “perfetta” ricevendo in cambio, dalla sua famiglia “perfetta”, il trattamento di chi lo considera con sufficienza, alla stregua di un bancomat.
Così, grazie a una scrittura filmica impeccabile, i creatori della serie (Josh Heald, Jon Hurwitz, Hayden Schlossberg) centrano l’obiettivo praticando con coraggio le potenzialità della più spinta serialità e usando come pretesto la storia del personaggio di Lawrence, l’allievo del Cobra Kai, sconfitto da Daniel Larusso alla finale del torneo All Valley di karate tenutasi in quell’ormai lontano ‘84.
Gli autori sfruttano con straordinaria sapienza la miscela di “vecchio” e “nuovo”, costruendo una moderna ed efficace serie teen che si auspica diventi di culto.
Riescono, forse, nell’impresa di unire generazioni diversissime senza il ricorso al citazionismo spinto, ormai inflazionato da prodotti alla Stranger Things, o affidandosi ai consumati dispositivi del prequel e dello spin off, bensì  misurandosi con lo spauracchio per eccellenza: il sequel.
L’intreccio, semplice e geniale al tempo stesso, muove da una banalissima domanda: cos’è successo a Johnny dopo la sconfitta al torneo? La risposta è impietosa e nerissima come solo la vita sa essere:
Johnny è un loser, un fallito dal pessimo carattere che vive di birra e musica dei Gun’s, incapace di avere un rapporto con il figlio e con il crudele patrigno.
Ma proprio  il concetto del “fallimento” rappresenta la grande chiave metaforica della serie e del protagonista. Basta un incontro fortuito con un ragazzino, in tutto e per tutto identico al Daniel di un tempo, per innescare la miccia.
Un po’ per scherzo e un po’ per spirito di rivincita, lo squattrinato Lawrence riapre l’antico dojo. In un trionfo di richiami all’originale, il “Cobra Kai” risorge restituendo allo spettatore la formazione di una nuova classe di villain: una banda di perdenti che, invece di affidarsi alla filosofia zen di un guru non violento, verranno forgiati attraverso il recupero del roboante e patinato credo «Colpisci per primo. Colpisci più forte. Senza pietà.»
D’altronde, gli anni Ottanta sono passati, e la società è mutata radicalmente. Nessun antagonista, nessun antieroe farà parte del nuovo dojo, ma solo giovani outsiders che cercano un riscatto e una rivincita nei confronti del neo-bullismo dei rampolli borghesi.
Il tema è deflagrante. E per lo spettatore esplodono i quesiti: siamo sicuri che, oggi, per un adolescente emarginato, immigrato e senza soldi nell’America di Trump basterebbero le parole rassicuranti di Miyagi e uno steccato da verniciare?
O in fondo è meglio incontrare un sensei sbagliato ma tosto come John Lawrence, uno che – suo malgrado – fomenta i propri allievi alla riscossa?
Di certo c’è che John Lawrence non è il mentore in cui ci si augura di imbattersi, tutto il contrario del politically correct: schernisce di continuo gli allievi per le loro difficoltà relazionali e perfino per i loro difetti fisici; non gli carezza la testa; non li tratta da vittime e gli restituisce la medesima crudezza che il mondo gli ha riservato.
Tuttavia fornisce ai suoi il più prezioso degli strumenti: la tecnica e i mezzi per replicare alle umiliazioni. O meglio: per aggredire la vita sul tempo, prima che sia lei a metterti k.o.
E ancora una volta, da copione, a John si contrappone il perfettissimo Daniel Larusso, tollerante e smaccatamente dalla parte dei giusti, con la sua condotta impeccabile ed eroica.
Ma le categorie di “giusto e sbagliato”, nell’America della diseguaglianza e delle lacerazioni odierne, volgono al termine. E i buoni propositi di Daniel risultano insufficienti
La serie compie dunque una netta scelta di campo, spostando i riflettori su Lawrence in maniera spudorata, e rendendo il personaggio di Daniel eccessivo, sempre affettato, preda di quel sentimentalismo che le forze populiste etichettano come un lusso che solo le élite liberal-democratiche possono concedersi.
Nonostante il punto di vista privilegiato sia dunque quello di John, la grande rivincita, a conti fatti, non esiste.
E la forza della serie risiede proprio nel suo costante spirito anti-eroico che non solo non rinuncia all’epopea, ma offre un perfetto esempio di quella che viene definita “epica nera”: cioè la declinazione dell’epos in senso anti-consolatorio, volta a far esplodere tutto le contraddizioni che soggiacciono alla contemporaneità.
Lezione dopo lezione i personaggi oscillano sempre tra il versante del “giusto” e dello “sbagliato”, in un mondo post-novecentesco in cui le sfumature sono divenute l’essenza stessa della vita.
Il risultato è la rappresentazione efficace di uno spaccato contemporaneo in cui essere semplicemente bravi ragazzi non serve, in cui per le minoranze e i timidi non basta una pacca sulla spalla. Un mondo di adolescenti ammalati di solitudine, costretti a fare i conti con un ambiente spesso impietoso i cui colpi sotto la cintura arrivano da ogni parte.
Tantissimi ne prenderà Lawrence, che sarà costretto a superare lo stereotipo del “cattivo” in cui era rimasto imprigionato sin dal 1984, per trasmutare in un personaggio complesso e ricco di sfaccettature.
Se Miyagi insegnava il karate per non applicarlo, come forma astratta di meditazione, Lawrence lo insegna per servirsene e sopporta il peso che gli sfugga di mano, rinunciando alle risposte più facili. Daniel, invece, è la brutta copia di sé stesso, e ormai insegna il karate solo per noia, incapace di raggiungere l’intensità del suo maestro e del suo antico antagonista.
Anche nel finale la serie non smentisce la sua cifra, evitando la consolatoria ricomposizione e optando per far detonare le contraddizioni fino all’ultimo incredibile fotogramma.
In attesa della seconda stagione e sperando nella commercializzazione italiana di questa chicca,  Cobra Kai  è una delle scoperte più clamorose dell’anno, l’unica serie teen ad affrontare la società americana con ferocia e di petto, utilizzando un linguaggio nuovo e accattivante che riesce a mettere in scena la maturazione dei vecchi tempi, sovvertendone grammatica e stereotipi.
Insomma: un gioiello da non perdere.

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