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lun 14 maggio 2018

CINA, SOCIAL CREDIT: IL PERCHÉ-PT.2

Accontentarsi di rispondere alla domanda “perché in Cina vogliono introdurre il sistema di social credit?” con “perché il governo cinese è cattivo e vuole controllare tutti” sarebbe un insulto all’intelligenza, indubbia, della dirigenza politica più spietata e pragmatica al momento attiva sul pianeta Terra. E, soprattutto, prenderebbe sottogamba il tratto più distintivo del Partito comunista cinese sotto la guida di Xi Jinping: il pragmatismo.

Accontentarsi di rispondere alla domanda “perché in Cina vogliono introdurre il sistema di social credit?” con “perché il governo cinese è cattivo e vuole controllare tutti” sarebbe un insulto all’intelligenza, indubbia, della dirigenza politica più spietata e pragmatica al momento attiva sul pianeta Terra.
E, soprattutto, prenderebbe sottogamba il tratto più distintivo del Partito comunista cinese sotto la guida di Xi Jinping: il pragmatismo.
La gestione del più longevo sistema autoritario ininterrottamente al potere, oggi più che in passato, per la dirigenza cinese prevede un gelido approccio analitico e di previsione del rischio.
La sfida è intravedere i problemi prima che si presentino e agire di conseguenza, forti del patto coercitivo siglato con la popolazione cinese con la fondazione della Repubblica popolare: per il vostro bene, comandiamo noi, e non vogliamo essere disturbati.
Assodato che le misure introdotte dal governo cinese non sono mai frutto dell’istinto, bensì si poggiano su calcoli di “risk assessment” formulati con cura maniacale dai tecnici del Partito, ragionare sugli ipotetici benefici portati dal sistema del social credit provando a immedesimarsi nella dirigenza di Pechino è un ottimo punto di partenza.
Per Pechino, questo sistema di controllo aumentato e automatizzato dovrebbe innescare, come nell’esperimento della cittadina di Rongcheng, un circolo virtuoso su scala nazionale.
La messa a punto di una valutazione costante e in tempo reale dell’affidabilità di cittadini e aziende rappresenterebbe una cartina al tornasole automatica dello stato di salute del Paese, in particolare nel settore finanziario, permettendo alle autorità un’ottimizzazione delle risorse fino a oggi impensabile.
Tra gli intenti dichiarati da Xi Jinping per la costruzione della superpotenza cinese del domani l’incentivo ai consumi interni occupa una posizione dominante: per svincolarsi dalla dipendenza dalle esportazioni, la locomotiva cinese dovrà essere sempre più autosufficiente, aumentando la qualità della produzione interna e, allo stesso tempo, allargando la base dei consumi.
La prima parte dell’operazione è già un successo sotto gli occhi di tutti, con la Cina già in grado di delocalizzare produzioni scadenti oltreconfine investendo maggiormente in prodotti “high end”.
Il passo successivo, dare ai cinesi i mezzi economici per consumare non solo di più ma anche meglio, impone un delicato passaggio di apertura del credito a quelle centinaia di milioni di cinesi ancora ai piani bassi dell’ascensore sociale, con l’alto rischio di insolvenze a catena in grado di destabilizzare l’intero sistema del credito.
Con le banche tradizionali, controllate dall’apparato statale, costrette ad agire all’interno delle rigide regolamentazioni imposte dal governo, negli ultimi anni è andato creandosi in Cina un sistema di credito parallelo e poco regolamentato generalmente indicato col nome collettivo di “shadow banking”, banche ombra.
Elencare quali tipi di istituzioni facciano parte del cosiddetto shadow banking è piuttosto complicato, accontentiamoci di una definizione per esclusione: è shadow banking qualsiasi entità che presti soldi al di fuori del sistema bancario formale.
Presto i cinesi hanno capito che chiedere un prestito a una banca ombra comportava molti meno rischi di rifiuto di apertura del credito e, di convesso, le banche ombra hanno fiutato l’affare implementando politiche di elargizione di prestiti molto elastiche.
I servizi bancari offerti dai conglomerati hi tech cinesi come Tencent e Alibaba propongono prestiti immediati senza alcun collaterale, utilizzando già un sistema di profilazione utente che valuta la probabilità di saldo del debito incrociando variabili derivate dai metadata in possesso dell’azienda.
Si tratta però di calcoli spesso apparentemente fallati. Scrivono Alexandra Stevenson e Cao Li sul «New York Times»: «Il signor Bai, fattorino trentenne di Pechino, ha preso in prestito ingenti somme di denaro dalle fila sempre più fitte dei finanziatori online in Cina. In un Paese dove mancano metodi affidabili per determinare chi possa essere un buon debitore, questi finanziatori usano l’intelligenza artificiale e strambi dati personali – come monitorare la velocità di digitazione su smartphone di un utente – per determinare chi li ripagherà. Col signor Bai, hanno fallito. All’inizio ha chiesto un prestito per aprire un’attività. Quando l’affare è saltato, ha chiesto altri prestiti per investire nei futures del carbone, dell’olio di colza e dello zucchero. Presto, il signor Bai si è ritrovato a chiedere prestiti a un finanziatore per ripagarne un altro. Oggi il signor Bai è indebitato per oltre cinquemila dollari, con una busta paga che non arriva ai seicento dollari al mese.»
Nel tentativo di arginare il rischio di un’epidemia di insolvenza potenzialmente disastrosa per il piccolo risparmiatore tipo della Repubblica popolare – per cui la linea di demarcazione tra investimento e gioco d’azzardo è spesso inesistente – alla fine del 2017 le autorità cinesi hanno imposto un giro di vite alla proliferazione di banche ombra, prima bloccando la nascita di nuovi finanziatori informali e, in seguito, minacciando controlli più severi per le agenzie di prestasoldi che operano senza licenza.
In quest’ottica la messa a punto di un sistema di social credit centralizzato e preciso, sotto l’egida dello Stato, permetterebbe a Pechino di regolamentare con efficacia un settore creditizio in enorme crescita e, soprattutto, di ricondurre i flussi di denaro entro lo steccato del sistema bancario formale, subordinato alle linee guida governative. Il sistema di social credit, in buona sostanza, sarebbe lo strumento di valutazione dei nuovi clienti (si stima siano intorno al miliardo di persone) che finora mancava nella cassetta degli attrezzi delle banche tradizionali.
È importante sottolineare che il segmento interessato dalle valutazioni di solvibilità non comprende solo le persone fisiche ma anche, e soprattutto, le aziende, per cui fingere un ottimo stato di salute finanziario a discapito di un debito in perenne espansione grazie ai pochi controlli per l’accesso al credito ombra rappresenta un pericolo sistemico ben maggiore dei default seriali di piccoli risparmiatori incauti.
Il rischio, per Pechino, sarebbe trovarsi davanti a un collasso totaledell’intero sistema finanziario nazionale. Se la minaccia di insolvenze a catena da problema finanziario rischia di diventare per le autorità cinesi una pentola a pressione sociale sul punto di esplodere, il danno netto sofferto dai grandi player è tutto sommato mitigato dalla contropartita non monetaria, ma di grande valore, che tali servizi ricevono “gratis” dagli utenti: i propri metadati.
Più che il denaro sonante, per le compagnie hi tech cinesi è l’accumulazione di big data il vero affare del secolo: un patrimonio di metadati su cui calcolare strategie di mercato, abitudini di consumo, tendenze e aspirazioni del più grande bacino di mercato del mondo.
Un tesoro che, al momento, è distribuito in cluster indipendenti – e in concorrenza tra loro – nelle banche dati dei grandi conglomerati cinesi e gestito in ottica esclusivamente commerciale. L’ambizione della dirigenza cinese, agevolata dall’assenza totale di norme che garantiscano la privacy dei propri cittadini, è non solo partecipare alla cogestione dei metadata nazionali facendo valere il diritto del governo di attingervi per “motivi di sicurezza”, ma guadagnarne il controllo totale in regime di monopolio, centralizzando la raccolta dei big data in un unico database integrato con le informazioni personali che Pechino già possiede.
Ecco che allora la controversa legge sulla cybersecurity varata lo scorso mese di giugno dal governo cinese – che, tra le altre, obbliga le compagnie straniere che operano in Cina a conservare “informazioni personali e importanti dati aziendali” in server fisicamente ubicati entro i confini della Repubblica popolare – assume contorni inquietanti che vanno ben oltre lo scotto da pagare per una presenza nel mercato cinese.
Pechino sa che dopo aver vinto la battaglia sulla gestione delle informazioni e dei contenuti offerti agli utenti nell’era digitale, filtrando con successo il flusso di dati del web attraverso le maglie del Great Firewall e creando un ecosistema di social network e servizi web parallelo che nulla ha da invidiare rispetto a colossi come Facebook e Twitter, la grande partita del domani sarà aggiudicarsi la gestione e il controllo delle informazioni degli utenti stessi.
Messo a punto il sistema di organizzazione dei dati, le opzioni di utilizzo di uno strumento simile nelle mani del governo cinese – dal monitoraggio finanziario alla repressione della dissidenza – diventeranno letteralmente infinite.
Per dirla con le parole di Sebastian Heilmann, presidente del think tank tedesco Mercator Institute for China Studies, riportate dal «South China Morning Post»:
«Il sistema di credito sociale dà una prospettiva completamente nuova alla regolamentazione non solo dell’economia ma della società. È veramente completo, attivato dai big data, sia nei propri aspetti di regolamentazione, sia di sorveglianza. È una questione più seria di qualsiasi cosa abbiamo incontrato in letteratura. Va oltre George Orwell e la sua visione, poiché si tratta di un sistema ad aggiornamento continuo, qualcosa che si muove costantemente con te, un sistema di controllo perfetto.»
Per la prima parte dell’articolo, qui.

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