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lun 19 marzo 2018

LA CINA BLINDA IL CAPITALE POLITICO

Domenica 10 marzo le ambizioni del presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, sono state ratificate quasi all’unanimità dai 2964 delegati dell’Assemblea nazionale cinese, il consesso parlamentare più vasto del mondo. Le quasi tre migliaia di yes-men che occupano gli scranni del parlamento, ha dato l’ok a una serie di emendamenti costituzionali proposti dal Comitato centrale del Partito comunista cinese, tra cui spicca l’abolizione del limite di due mandati per la carica di presidente e vice presidente. La dirigenza cinese ha giustificato l’introduzione del mandato illimitato come misura necessaria per «rafforzare e migliorare il sistema della leadership cinese». La Cina blinda il suo capitale politico.

Domenica 10 marzo le ambizioni del presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, sono state ratificate quasi all’unanimità dai 2964 delegati dell’Assemblea nazionale cinese, il consesso parlamentare più vasto del mondo.
Le quasi tre migliaia di yes-men che occupano gli scranni di un parlamento chiamato a vidimare decisioni già prese altrove, ha dato l’ok a una serie di emendamenti costituzionali proposti dal Comitato centrale del Partito comunista cinese, tra cui spicca l’abolizione del limite di due mandati per la carica di presidente e vice presidente della Cina.
Si tratta di una rivoluzione nel senso stretto del termine, intesa come «cambiamento radicale» rispetto alle condizioni in cui la rivoluzione ha agito. Condizioni che, dagli anni Ottanta, il Partito comunista cinese aveva ereditato dalle volontà di fine mandato di Deng Xiaoping: padre delle riforme economiche che hanno fatto prosperare l’unica dittatura al mondo in cui il passaggio di consegne da una generazione di leader alla successiva, negli ultimi trent’anni, è avvenuto secondo una ritualità infallibile e indolore.
Il limite di due mandati – introdotto da Deng per scongiurare l’eventuale ritorno di un fanatismo sanguinario stile Rivoluzione Culturale ispirato a un nuovo culto della personalità – nella nuova Cina immaginata da Xi è stato sacrificato sull’altare di un progetto eccezionale, ossia la costruzione di una vera superpotenza globale: stabile al proprio interno, influente oltre i propri confini con la Nuova Via della Seta. E ambizioni eccezionali, per Xi, impongono misure drastiche a garanzia di poteri altrettanto eccezionali.
Che il lascito di Deng fosse un paletto destinato a saltare lo si era capito dalla conclusione del 19esimo Congresso del Pcc, quando la mancata «nomina» di un successore al potere lasciava intendere un prolungamento della reggenza Xi, stimato tra i 5 e i 10 anni.
La dirigenza cinese ha giustificato l’introduzione del mandato illimitato a livello costituzionale come misura necessaria per «rafforzare e migliorare il sistema della leadership cinese», ma la portata di questo passaggio storico è decisamente più apprezzabile se analizzata assieme ad altre novità «votate» dal parlamento cinese.
Una su tutte, l’istituzione della Commissione nazionale di supervisione (Nsc), un’agenzia «posta al pari del governo centrale e al di sopra del potere giudiziario» che «monitorerà la condotta non solo dei 90 milioni di iscritti al Partito comunista, ma anche dei manager delle imprese di stato, degli ospedali, delle istituzioni culturali e scolastiche, delle organizzazioni sportive, dei governi locali a livello di villaggio e degli istituti di ricerca».
La nuova super agenzia – che accorperà la commissione anticorruzione del partito, il ministero della supervisione ed elementi della procura di stato – potrà procedere all’arresto immediato di presunti corruttori e corrotti, al congelamento dei rispettivi beni e alla perquisizione delle rispettive abitazioni.
Come già in vigore per la commissione anticorruzione, punta di diamante utilizzata da Xi per «ripulire il partito dai corrotti», la Nsc potrà trattenere in stato di detenzione qualsiasi indagato per un massimo di sei mesi, negandogli la consulenza legale.
Un simile accentramento dei poteri, scrive il «New York Times», si materializzerà presto anche in ambito finanziario, con un piano che «accorperà i due organi che regolano le assicurazioni e le banche cinesi, aumentando l’abilità di monitoraggio delle istituzioni finanziarie», contemporaneamente «delegando alcune responsabilità alla Banca centrale cinese, che acquisirà un ruolo ancora più prominente nel mantenimento della stabilità finanziaria in quella che è oggi la seconda economia più grande al mondo».
Come indica Jun Mai in un recente articolo apparso sul «South China Morning Post», «le 21 modifiche alla costituzione proposte [al parlamento] puntano tutte verso un unico obiettivo: rafforzare la legittimità del partito e istituzionalizzarne il proprio dominio sfumando i confini tra Partito e Stato.
Analisti esperti del pensiero del partito indicano che Xi ritiene necessari tali emendamenti poiché, per le sfide che la Cina affronta oggi, non serve solo un leader forte ma anche un partito forte e unificato. Queste modifiche porranno fine al dibattito circa la posizione del partito rispetto allo stato».
Siamo, insomma, al definitivo superamento della dottrina denghista, al ritorno della supremazia e della supervisione del Partito su ogni aspetto della società cinese contemporanea. Uno scenario che, in altri tempi, avrebbe scatenato l’indignazione e le proteste della comunità internazionale, quando ancora si riteneva opportuno «educare» la Cina circa le «best practices» – sociali, ma soprattutto economiche – delle democrazie occidentali.
Evitando di agitare gli spettri di un «maoismo di ritorno» e di spellarsi le mani applaudendo all’ennesima ascesa dell’«uomo forte» altrui, facendo il tifo da divani cui sono garantite libertà fondamentali negate altrove, non si può non rilevare come l’accelerazione accentratrice di Xi si sia manifestata in condizioni, dal punto di vista cinese, eccellenti.
Scrive Kerry Brown, direttore del Lau China Institute del King’s College di Londra, sul «South China Morning Post»: «C’è una cosa che dobbiamo tenere a mente circa la leadership di Xi. Gli ultimi cinque anni [per la Cina] sono andati molto bene, e il mondo esterno è responsabile di una parte di queste fortune. L’Europa rimane preoccupata e indebolita, e forse lo rimarrà sempre. La crescita dei partiti nazionalisti è stata tenuta sotto controllo ma in Italia, in Austria e nell’Europa orientale, le cose appaiono ancora preoccupanti. L’estremismo è tenuto a bada, ma ancora non sconfitto. E potrebbe presto risvegliarsi. Il Medioriente rimane perennemente tormentato. E alla Casa Bianca siede un presidente visto da molti dei suoi stessi connazionali come antitetico al medesimo sistema che dovrebbe difendere.»
«La Cina può occupare questo vuoto quasi a proprio piacimento, lentamente, guadagnando terreno senza fretta e approfittando della situazione. Con Xi, dispone di un leader dalla caratura personale e portatore di un messaggio adatto per farlo efficacemente».
Secondo la lettura di Brown, in un periodo storico in cui tutto sembra invitare la Cina a prendere le redini della comunità internazionale, «la leadership di Xi sta mettendo da parte il capitale politico, si sta consolidando, preparandosi per quando le cose andranno meno bene».
Un’analisi speculare agli intenti dichiarati dalla leadership della Repubblica popolare: per meglio affrontare le eventuali turbolenze del futuro cinese – impegnato nella ricerca di un equilibrio tra stabilità economica e sociale interna come precondizione per un ruolo da leader all’estero – non c’è porto più sicuro del consolidamento del potere del Partito.
Che Xi Jinping interpreti questa necessità ineluttabile come un mandato in bianco per segnare, a proprio piacimento e senza intralci, il corso della Cina di domani, dice molto dell’ambizione dell’uomo.
Ma, soprattutto, dimostra plasticamente il totale fallimento delle democrazie occidentali nel processo di determinazione – attraverso la denuncia, il dialogo, la cooperazione e l’analisi della contemporaneità – delle traiettorie di sviluppo della Cina di oggi.

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