Decodificare il presente, raccontare il futuro

MONITOR


ven 22 aprile 2016

CHANEL E HERMÈS I MENO VIRTUOSI

Così la Fashion Revolution and Ethical Consumer ha stilato la classifica di 40 marchi della moda globale

22 APRILE 2016 – Agli inizi di aprile, in occasione del terzo anniversario del crollo del Rana Plaza, la Fashion Revolution and Ethical Consumer, un’associazione attiva dal 2001 nel campo del consumo etico, promotrice di un manifesto programmatico che spazia dall’evasione fiscale al benessere degli animali, ha pubblicato la prima edizione del Fashion Transparency Index, un rapporto che monitora e classifica la trasparenza della filiera produttiva dei quaranta brand di abbigliamento più diffusi a livello globale. I risultati promuovono Levis’ Strauss, H&M e la Inditex mentre tra i bocciati eccellenti compaiono Chanel, Hermes, Fendi e Prada. Nella terra di mezzo, tra gli altri: Ralph Lauren, Gucci, Hugo Boss, Nike e Converse.
L’obiettivo dichiarato è fare pressione sulle case produttrici perché assumano formalmente l’impegno a non sfruttare manodopera sottopagata, a utilizzare standard ambientali efficienti e in sostanza adoperarsi perché quanto successo il 24 aprile del 2013 in Bangladesh non debba più ripetersi. In nessun modo l’indagine è volta ad attuare campagne di boicottaggio nei confronti dei marchi interessati anche se l’intento è anche quello di fornire ai consumatori dettagliate informazioni riguardo gli indumenti acquistati, «nella speranza – si legge – di incoraggiarvi a volerne sapere sempre di più». La domanda intorno alla quale ruota la ricerca è un hashtag ad alto indice virale #whomademyclothes?, chi produce i miei vestiti?, ed è stata posta alle aziende selezionate attraverso un questionario che è stato compilato solo da 10 delle 40 compagnie contattate mentre per le altre l’indagine si è basata sulle informazioni reperibili online, contenute nei loro siti internet oppure nelle rispettive relazioni annuali. La metodologia utilizzata è quella del rating finanziario: ogni gruppo imprenditoriale è stato classificato sulla base di 5 criteri che comprendono politiche aziendali, tracciabilità, controlli sulla produzione, impegno e collaborazione, governance. La maglia nera se l’aggiudica Chanel con un rating del 10% a testimoniare che «non esistono evidenze circa il fatto che la compagnia stia attuando codici di condotta efficaci mentre persistono sforzi non sufficienti atti a rendere maggiormente trasparenti le pratiche che regolano la propria catena di fornitura». All’altro capo della classifica domina su tutte la Levis’ Strauss & Co. alla quale viene assegnato il miglior punteggio, pari al 77%. Traduzione: «All’interno dell’intervallo più alto – 76-100% – solo tre società (Levi’s, appunto, assieme ad H&M e Inditex) hanno dimostrato di fare più di tutte le altre compagnie avendo messo a punto sistemi efficaci per quanto riguarda il monitoraggio, il rintracciamento e il miglioramento delle condizioni di lavoro e delle pratiche di rispetto ambientale in tutta la catena di fornitura». Nonostante ciò, conclude la scheda, «anche queste aziende hanno da fare ancora molta strada verso la completa trasparenza».
Andando più nel dettaglio dei risultati emersi dalla ricerca, si constata che la maggioranza delle società raggiunge un buon punteggio riguardo le politiche in materia di norme ambientali e lavorative anche se tra le criticità evidenziate nel rapporto permane la «notevole incapacità di pensare a strategie di sostenibilità di lungo termine». Solo 3 aziende su 40 (ovvero la Gap, la Primark e la Levi Strauss) guardano infatti ad un futuro di lungo raggio, al 2020 per la precisione, mentre le altre sembrano navigare a vista. Tra i punti dolenti il fatto che ben il 28% delle società coinvolte non comunichi ai ricercatori se vengano adottate misure speciali per monitorare le maggiori difficoltà riscontrate in catena di produzione (ad esempio eliminazione del lavoro forzato, delle pratiche Sumangali o lo sfruttamento minorile) dimostrando di non poter assicurare allo stato attuale un miglioramento nelle condizioni di lavoro dei propri dipendenti. Un dato preoccupante che fa il paio con quello riguardante i rapporti tra le aziende e le organizzazioni sindacali o le ONG operanti nei Paesi più a rischio: solo 11 delle aziende valutate dal Fashion Transparency Index dichiarano infatti di aver attivato una sinergia o una collaborazione con i rappresentanti della società civile dei lavoratori tessili. In conclusione, spiega il rapporto, «alcune aziende stanno adottando misure che vanno nella giusta direzione» ma altre, soprattutto le marche di lusso, sono in colpevole ritardo e per ora «si limitano a pubblicare niente più che un codice di condotta». E’ un buon inizio, ma non basta.
Leggi anche STRAGE DEL RANA MAI PIÙ. LA MODA SI DÀ UN CODICE

NEWSLETTER


Autorizzo trattamento dati (D.Lgs.196/2003). Dichiaro di aver letto l’Informativa sulla privacy.



LEGGI ANCHE: