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MONITOR


ven 12 gennaio 2018

IL CALCIO AL TEMPO DEL VAR

Portare la telecamera al centro della scena. In area di rigore. Dziga Vertov invade il campo da calcio. La macchina da strumento invisibile, con la funzione di raccordare tra loro le diverse scene e di trasportarle in un’unità continuativa di spazio e tempo, diventa protagonista. Attore principale, sul terreno di gioco, di una nuova narrazione che si frantuma e moltiplica. Rompendo lo spazio e il tempo. Benvenuti a una partita di calcio al tempo del Var.

Portare la telecamera al centro della scena. In area di rigore. Dziga Vertov invade il campo da calcio.
La macchina da strumento invisibile, con la funzione di raccordare tra loro le diverse scene e di trasportarle in un’unità continuativa di spazio e tempo, diventa protagonista. Attore principale, sul terreno di gioco, di una nuova narrazione che si frantuma e moltiplica. Rompendo lo spazio e il tempo.
Benvenuti a una partita di calcio al tempo del Var. Funziona? Non funziona? Non è tempo per noi, per decidere queste cose.

Di sicuro il Var – Video Assistant Referee – non è la moviola in campo agognata da Aldo Biscardi quando altre trasmissioni, supposte più serie e rigorose, gli hanno sottratto le chiacchiere sovrapposte e il caos organizzato, costringendolo alla battaglia di retroguardia per l’avanguardia. La moviola in campo, appunto.

Il Var non è chiamato a dirimere ogni tipo di azione dubbia, incerta. Non interviene ogni cinque minuti. Non si occupa di fuorigioco (a meno che non porti a segnare un gol), cartellini gialli, calci d’angolo. È uno strumento limitato ad alcuni fasi di gioco.
Interviene su richiesta dell’umano, le sue immagini proposte sono soggette a giudizio umano. Alla fine decide sempre un arbitro. Il Var non è infallibile. A volte funziona. A volte non funziona.
Esempio Numero 1

Sardegna Arena, poco fuori Cagliari. Cagliari-Juventus. L’arbitro Calvarese di Teramo sceglie di non avvalersi del Var in due episodi dubbi a favore della Juventus. A un quarto d’ora dalla fine, sull’evidente fallo di Benatia su Pavoletti, azione da cui oltretutto parte il contropiede che porta la squadra bianconera a segnare il gol partita. Neanche cinque minuti dopo, sul chiaro fallo di mano di Bernardeschi in area. Qui, il direttore di gara si confronta solo verbalmente con l’arbitro Banti, incaricato del Var, ma non ritiene opportuno recarsi a osservare le immagini sullo schermo: il mani sarebbe stato troppo palese, costringendolo a fischiare il rigore.
Ecco trovato l’escamotage, l’umano si sottrare alla macchina, al massimo consulta l’umano che guarda la macchina. La consultazione è mediata, il verdetto può essere imperfetto.
Non c’è nulla da fare. La tecnologia non salverà il mondo fino a quando sarà gestita dall’umano. Il Var non porta quindi giustizia per sé, non può. Cerca di diminuire il numero di errori possibili, si pone come coscienza pulita a ricordare al direttore di gara che c’è la possibilità di un’immagine. Non è l’Es, non può essere il Super-Io. Non ancora. Forse un domani. Quando la tecnologia non sarà comandata dall’umano. Ma non è detto sia un bene, il domani.

Cambia radicalmente il gioco? Lo trasforma?

Non ha nemmeno senso discuterne.
Il Var è una delle sporadiche quanto determinanti innovazioni nelle regole del pallone.
Come il fuorigioco, il calcio di rigore, il numero di undici calciatori per squadra (ebbene sì, è deciso dopo l’introduzione del primo fuorigioco, dieci anni dopo), i calci di punizione, di rigore, le sostituzioni, i cartellini, il retropassaggio al portiere, la goal line technology.

Ora il Var.

Nel futuro potrebbero arrivare il tempo effettivo, il calcio di punizione in movimento, la quarta sostituzione, l’eliminazione della ribattuta sul rigore, il gol in caso di fallo di mano sulla linea di porta.

Nostalgia di un calcio senza fuorigioco? Di partite pioneristiche senza calci di rigore o sostituzioni? Vi disturbano i cartellini gialli e rossi durante la partita? Allora fate bene a non volere il Var.

Vi spaventa il futuro con la quarta sostituzione? Tremate all’idea dell’arrivo del calcio di punizione in movimento? Allora fate bene ad avere paura del Var.

Altrimenti, state tranquilli.

Il calcio è sopravvissuto alle innovazioni di cui sopra, sopravviverà anche al Var.

Certo, alcune trovate stupide come il golden gol o gli shootout non hanno lasciato minima traccia nella storia del pallone, scomparendo in silenzio. Così come erano arrivate. Ma il Var non è una di queste. È un semplice aiuto tecnologico agli arbitri, necessario.
Ma, soprattutto, il Var c’era già. Solo, non lo si poteva dire.
Finale del campionato mondiale di calcio 2006.

Italia-Francia. Berlino, Olympiastadion.

Secondo tempo supplementare. Marco Materazzi e Zinedine Zidane passeggiano verso la metà campo battibeccando. Dopo qualche secondo il francese torna indietro e colpisce l’italiano con una testata al costato. Il quarto uomo spagnolo Luis Medina Cantalejo avvisa l’arbitro argentino Elizondo, che espelle Zidane.

Qualcuno, tutti sanno e tutti dicono, ha avvisato il quarto uomo dopo avere rivisto le immagini in televisione. Ma non è ufficiale. Non può esserlo. Da regolamento non esiste il Var.
I meriti vanno al quarto uomo. Eppure tutti sanno e tutti dicono: è l’ingresso della televisione sul campo di calcio.
Ma, soprattutto, il Var c’era già. Solo, non lo si poteva utilizzare.

Ottavi di finale del campionato mondiale di calcio 2010.

Argentina-Messico. Soccer City Stadium, Johanesburg.

Inizio del primo tempo, l’argentino Carlos Tevez segna in evidente fuorigioco su assist del compagno Leo Messi. L’arbitro italiano Roberto Rosetti convalida. Con lo sguardo cerca la conferma del guardalinee Ayroldi, attorniato dalle proteste dei messicani. I due confermano la decisione. Ma nel frattempo è successo qualcosa.

Il maxi schermo dello stadio ha mandato in onda il replay del gol: 84,377 spettatori hanno visto l’evidente fuorigioco. Lo hanno visto anche il tecnico messicano Aguirre e il quarto uomo sudafricano Damon. Lo hanno visto tutti, tranne Rosetti e Ayroldi, che a causa di quell’errore macroscopico perderanno la possibilità di arbitrare la finale.

Detto ciò, non si pone più il problema dell’utilità o della liceità del Var in termini di regolamento e aiuto tecnologico all’arbitro.
Resta la questione della narrazione. Dell’unità aristotelica del racconto della partita che si frammenta, dello spazio-tempo che si frantuma.
Non nella fruizione televisiva, dove da oramai un quarto di secolo la partita è interrotta da replay, highlights, spot commerciali, interventi da bordocampo.

Ma allo stadio.

Esempio Numero 2

Stadio Olimpico di Roma, Roma-Sassuolo. Mancano pochi minuti alla fine quando Alessandro Florenzi segna il gol del 2-1 correndo a esultare sotto la Curva Sud.

Per un tempo non quantificabile, dilatato alla maniera di Bergson, qualificato secondo i codici emotivi proustiani, buona parte dei 36,157 spettatori è preda di irrefrenabile e scomposta gioia, grida, salta, si abbraccia, stringe pugni e sventola sciarpe.

È un tempo eterno, che si conclude però quando l’arbitro Orsato di Schio, dopo avere chiesto l’ausilio del Var, decide di annullare la rete per l’ostruzione di Under, in chiara posizione di fuorigioco, a Missiroli.

Il tempo della gioia si restringe fino a scomparire. Si trasforma in nostalgia di qualcosa che non è mai avvenuto. Paradossalmente, è un’emozione altrettanto forte di quella provata al momento del gol.

Il giorno dopo, in molti contestano il Var non più da un punto di vista regolamentare – alcuni giornali e trasmissioni avevano stilato addirittura “la classifica senza Var”, convinti che lo strumento sia manovrato da una cricca pluto-demo-giudaica che vuole male alla loro “squadra fortissimi” – bensì da un punto di vista emotivo. Il Var ha distrutto la poesia. Ha annullato un’emozione, ancora prima che un gol. Dicono.

Il Var ha rotto l’unità spazio temporale della narrazione come all’inizio sembrava lo facessero il fuorigioco, il calcio di rigore, la sostituzione e il cartellino. Poi ci siamo abituati. Nessuno può davvero avere nostalgia di un calcio primordiale senza alcuna frammentazione.
Ci abitueremo anche al Var.
L’emozione di vedersi annullare un gol, come di perdere una finale, è paragonabile a quella del segnare un gol e di vincere. Questo è il calcio. Un gioco.

Se sono considerate sane solo le emozioni solamente cosiddette positive – vincere, eccellere, riuscire – è un problema del nostro tempo. Non del Var.

E qui torniamo a Dziga Vertov.

Alla teorizzazione, insieme a Ėjzenštejn e Brecht, di una narrazione che rompesse appositamente l’unità aristotelica di modo che lo spettatore non fosse narcotizzato, alienato dal discorso dominante insito nel racconto, ma potesse estraniarsi.

Fuoriuscire dall’unità spazio temporale e avere il tempo per interrogarsi sul valore etico ed estetico dell’opera.

Ecco, nell’epoca in cui la bellezza è anestetizzata, l’interruzione della poetica messa in atto dal Var può aiutare il risveglio. Il Var è Dziga Vertov. Il Var è politico.

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