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MONITOR


ven 20 luglio 2018

IL CALCIO E LE BANLIEUES DIMENTICATE

“Bondy, Ville des Possibles”. Dallo scorso settembre, quando il ragazzo è passato al PSG per la cifra record di 188 milioni, un enorme murale con la faccia di Kylian Mbappé accoglie il viandante che dal centro di Parigi si dirige verso il famigerato sobborgo numero 93. Dopo la vittoria della Francia ai Mondiali di Russia 2018, il murale è stato riproposto per ribadire attraverso il calcio un’ipocrita idea di possibilità che, già associata a quella di successo, è ora collegata anche a quella di “Nazione”. Come la tradizione ordo-liberale impone, l’ordinamento giuridico è improntato al guadagno, le relazioni sociali basate sulla concorrenza, e il successo personale rimane l’unica via per fuggire dalle banlieues, che restano dimenticate.

“Bondy, Ville des Possibles”. Dallo scorso settembre, quando il ragazzo è passato al PSG in cambio della cifra record di 188 milioni, un enorme murale con la faccia di Kylian Mbappé accoglie il viandante che dal centro di Parigi si sta dirigendo a Bondy, sobborgo di cinquantamila anime nella periferia nordorientale della capitale, cuore del dipartimento Seine-Saint-Denis, il famigerato arrondissement numero 93.
Dopo la vittoria della Francia ai Mondiali di Russia 2018, quando giornalisti, sociologi, intellettuali o presunti tali si sono affrettati a celebrare la vittoria del paese multietnico e pacificato, il murale è stato riproposto in chiave ancor più sciovinista.
L’idea di possibilità, già associata a quella di successo, è ora collegata a quella di “Nazione”. Una patria benevola e accogliente. Come da tradizione ordoliberale, fondata su un ordinamento giuridico improntato al guadagno. E su relazioni sociali basate sullo scambio e sulla concorrenza.
Il successo personale come unica via per fuggire dalla banlieue
Se il pallone è quindi raccontato come strumento di evasione dalla povertà, che a Seine-Saint Denis interessa circa il 30% della popolazione a fronte di un 14% nazionale, ecco che il calcio diventa strumento di pacificazione dei conflitti.
Già nel 1998 la favola dei Black, Blanc e Beur (bianchi, neri e magrebini) che vincevano la prima Coppa del Mondo non aveva funzionato. Nonostante un editoriale sul quotidiano comunista «L’Humanité» aveva sostenuto, il giorno dopo la finale, che i due gol di Zidane avevano fatto di più per i diritti degli immigrati che mille discorsi della sinistra contro il razzismo, la brace che covava sotto la cenere era comunque destinata a esplodere.
E del resto lo imprimeva nell’immaginario la celebre pellicoladei ’90: “il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.”
Pochi anni dopo il 1998 quella Nazionale campione del mondo si sarebbe sfaldata. Pochi anni dopo il 1998 le banlieues parigine avrebbero dato vita a una delle più importanti rivolte metropolitane del nuovo millennio.
Da sempre il calcio francese pesca nelle banlieues. Costretti a giocare per strada, sul cemento, spesso con i muri al posto delle linee laterali o delle porte, i ragazzini sviluppano naturalmente un gioco rapido, basato sul fraseggio e sul passaggio corto. Un close-up calcistico. Trasportato in campo largo, è inarrestabile.
Melting pot etnico e linguistico, la banlieue è un singolare plurale che aumenta ancora di più la velocità di pensiero e di azione. Non c’è bisogno di adattamento. Culture, tradizioni e attitudini diverse si condensano tra di loro sul campo di cemento nell’attimo bergsoniano. Il calcio è puro élan vital.
Lo sa bene la federazione, che nelle periferie dell’impero investe per trovare i nuovi campioni.
Ci sono qualcosa come 30mila allenatori per 235mila ragazzini tesserati (un terzo degli under 18 di tutta la Francia) e sono nelle banlieues parigine. Questi allenatori, intervistati e ringraziati solo quando esplode un Mbappé, svolgono una funzione sociale decisiva nel tenere i bambini lontano dalla droga e dalla violenza cui li costringe il sistema.
Il paese. La patria. Molti di loro vedono passare davanti ai loro occhi un cucciolo di Mbappé per poi perderlo dietro una bustina di crack o in una rapina a mano armata. Molti di loro un Mbappé non l’hanno visto e non lo vedranno mai, ma continuano a lavorare ogni giorno.
Ma alla Fédération Française de Football tutto questo non interessa. A loro interessa solo il prodotto Mbappé finito. Altrimenti non si spiegherebbero gli investimenti dirottati sulle infrastrutture. E le quote razziali.
Nel primo caso è evidente la decisione del calcio e del Governo francese di voler costruire lo Stade de France, gioiello dei Mondiali del 1998, proprio a St. Denis non per sostenere una rigenerazione sociale ma per un progetto di complessiva gentrificazione delle periferie.
I 300 milioni investiti non sono certo andati a migliorare la vita delle comunità, come facilmente prevedibile, e anche il tentativo di trasformare quei luoghi in sobborghi per i ceti più abbienti è fallito per l’ingovernabilità delle banlieues.
Ancora quindici anni dopo, sono luoghi dimenticati dagli dei, dagli uomini, dalle loro federazioni sportive e dai loro governi.
Nel secondo caso bisogna fare un passo indietro. Ancora alle celebrazioni della Francia multietnica Black Blanc Beur che nel 1998 trionfa grazie alla doppietta del figliol prodigo algerino “Zizou” Zidane.
Mentre all’interno di una squadra mai unita cominciano a evidenziarsi le prime rotture, la Francia deve accorgersi di quello che è sempre stato sotto i suoi occhi e ha sempre fatto finta di non vedere.
Nel 2001, proprio durante un’amichevole allo Stade de France tra Francia e Algeria, i tifosi francesi immigrati di seconda e terza generazione sono tutti per l’Algeria. Fischiano l’inno nazionale tricolore. Invadono il campo.
Sullo stesso prato simbolo del grande inganno dell’integrazione etnica a uso e consumo del racconto che la Francia vuole fare di sé stessa, al posto di Zidane e Thuram, Deschamps e Desailly corrono i poliziotti in tenuta antisommossa. Danno la caccia a tutti quelli che non hanno la pelle bianca.
Non c’è spettacolo calcistico che tenga. Segregazione e razzismo sono strumenti del capitale per mantenere intatti i rapporti di sfruttamento.
Nel 2005, in seguito alla morte di Zyed Benna and Bouna Traoré, bruciati vivi mentre cercavano di fuggire alla polizia, le banlieues esplodono. Dal famigerato arrondissement 93 di Seine-Saint-Denis la rivolta si estende a macchia d’olio per tutta la Francia. È una delle più grandi insurrezioni urbane dell’occidente nel nuovo millennio.
Il ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy in visita ai luoghi della rivolta usa il termine racaille, feccia. Altro che Black, Blanc e Beur. La Francia è bianca, e basta. La discriminazione razziale è nel dna francese, ammette Libé.
Il calcio è un dispositivo del potere. Come ogni prodotto dell’industria culturale, è una narrazione funzionale alla classe dominante. Ma non sempre fila tutto liscio, nel sistema restano delle aporie, dei bug. Ogni tanto salta in aria tutto.
In questo caso, esplode anche lo spogliatoio della nazionale, in cui giocano Ben Harfa, Benzema e Nasri, le nuove stelle post 1998, i nuovi ragazzi delle banlieues. All’Europeo del 2008 e poi al Mondiale del 2010 lo spogliatoio si sgretola. Le divisioni nascono su base razziale.
Il nemico è il beur, lo denuncia anche il black, Liliam Thuram, da tutti preso a simbolo del calciatore di sinistra impegnato, si lamenta che nel gruppo ci sono petit cons, piccoli delinquenti, piccola feccia irriducibile alle regole del padrone.
Sono gli arabi, i musulmani. I nuovi nemici. L’house negro ha indicato la via.
Arrivano le quote razziali, dirette discendenti dell’État Français, il regime nazifascista del maresciallo Philippe Pétain. Il Governo e la Fédération Française de Football stabiliscono che in nazionale c’è troppa feccia araba e mulatta, che il popolo francese vuole vedere correre con la maglia blu ragazzi bianchi.
Messa in soffitta la retorica dei Black, Blanc, Beur, questa è l’immagine che la Francia vuole dare di sé. Allora ecco le percentuali, prima i bianchi. Poi gli altri. Prima il centro, poi le periferie. Che si fottano le banlieues.
Anche perché, come abbiamo visto, rimangono zone depresse cui nessuno si interessa. Nascono troppi bambini colorati, meglio abbandonarli al loro destino, incontreranno la morte prima di diventare adulti, e nessuno dovrà prendersene cura.
Poi succede che nel 2015 un attentato di matrice terrorista lambisce proprio l’infrastruttura simbolica dello Stade de France. Si sta per giocare un’amichevole tra Francia e Germania, in tribuna c’è anche il presidente François Hollande. I kamikaze non entrano nell’impianto per un soffio, la carneficina resta fuori.
Nessuno degli attentatori viene dalle banlieues, solo qualche vittima. Ma improvvisamente ci si ricorda che esistono. E sono di nuovo fiumi di inchiostro, valanghe di promesse per migliorare le condizioni dell’altra Francia.
L’état d’urgence, la sospensione dei diritti, diventa prassi politica giustificata. Ma la violenza poliziesca è ben lungi dal riportare legge e ordine nelle periferie dell’impero, figuriamoci benessere e prosperità.
Quindi, nel 2017, quando sulla facciata di un palazzo appare l’enorme murales “Bondy, Ville des Possibles” con la faccia di Kylian Mbappé, appena passato al PSG, lo stato di emergenza termina.
Ma le banlieues fanno ancora schifo. Le banlieues sono ancora un focolaio di insurrezione. Le banlieues non si piegano al destino e al capitale che le vuole disperate. Le banlieues lottano ancora.
Attori, scrittori, giornalisti e politici tornano a farsi vedere nel famigerato distretto 93. È l’anno dei Mondiali. Una nuova ondatadi falso multiculturalismo attraversa la Francia macroniana. Un paese postcoloniale che continua a depredare risorse nel terzo e quarto mondo e il cui esercito occupa militarmente tre quarti del continente africano.
Nessuna pacificazione si staglia all’orizzonte dell’impero. La guerra esportata sotto vestigia umanitarie è oramai entrata in casa. Le periferie restano una polveriera.
La celebrazione del paese multietnico, i falsi reportage di un paese in cui Black, Blanc e Beur si abbracciavano tra loro la sera della vittoria contro la Croazia a Russia 2018, si schiantano contro la realtà.
E allora il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. “Bondy, Ville des Possibles”, resta uno slogan.
Nonostante le narrazioni pacificate calate dall’alto per mezzo del calcio, nel dipartimento depresso di Seine-Saint-Denis, il famigerato arrondissement numero 93, non c’è nessuna possibilità. E non ci sarà mai. C’è solo la lotta.
Anche “Liberté, Egalité, Mbappé” resta uno stupido slogan. Un prodotto da celebrare nel merchandising del dibattito politico.
Come il calcio, da sempre un dispositivo del potere, a uso e consumo dell’ideologia dominante.

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