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MONITOR


mer 25 maggio 2016

CACCIA AL RISPARMIO PREVIDENZIALE

25 MAGGIO 2016 – La lunga marcia verso l’unificazione europea, che con i suoi saliscendi dura ormai da più di sessant’anni, trascura spesso di spiegare quale sia l’esito verso il quale vuol condurci. Si ragiona sul come e sul quando, ma si sorvola più o meno sul dove. Dove vogliamo arrivare? Oppure: cosa vogliamo diventare? Ogni passaggio di questa evoluzione – i più recenti sono stati l’unione monetaria con l’euro e l’unione bancaria – elabora narrazioni auto concludenti che solo di tanto in tanto svelano la visione d’insieme e un punto d’arrivo. Oggi c’è una nuova parola d’ordine che il grande pubblico ancora trascura: unione del mercato dei capitali, un processo già iniziato e che dovrebbe concludersi entro il 2019. E soltanto adesso si intravede un possibile punto d’arrivo: far somigliare l’economia dell’Europa a quella statunitense, costante pietra di paragone nelle riflessioni di Bruxelles. L’unione del mercato dei capitali perfeziona, se possibile, questo processo di avvicinamento. Fra i tanti scopi dichiarati nei documenti ufficiali della Commissione Europea – il più aggiornato è un Action plan che risale al settembre scorso – viene osservato che omogeneizzare i mercati dei capitali europei, quindi avere ad esempio regole uguali quando si emettono strumenti finanziari, vuol dire avere una circolazione dei capitale non soltanto libera, ma anche omogenea all’interno dell’Ue nel presupposto celato che ciò sia giovevole al nostro benessere.
Le finalità sono diverse. La lettura dell’Action Plan ci aiuta a individuarne alcune. Senza entrare troppo nei tecnicismi, vale la pena sottolinearne un paio: l’unione del mercato dei capitali, per la quale è stato coniato l’acronimo CMU (capitali market union), favorirà l’evoluzione del sistema finanziario europeo, ancora fortemente bancocentrico e frammentato, verso un utilizzo più diffuso dei mercato dei capitali per il finanziamento di banche e imprese, proprio come accade negli Usa. Al tempo stesso ciò dovrebbe favorire la crescita quantitativa dei mercati finanziari, a cominciare da quelli borsistici, aumentando di conseguenza la quantità di risorse a disposizione del sistema produttivo. Il tutto dovrebbe servire a stimolare gli investimenti, da una parte, e ad alleviare la pressione sulle banche, dall’altra, con l’obiettivo di rendere il sistema più stabile. Come si vede, cambia l’oggetto, ma gli argomenti sono gli stessi che abbiamo ascoltato quando si è trattato di far passare l’unione monetaria e poi quella bancaria: serve una maggiore integrazione per un maggio bene comune. Il che somiglia a una pura petizione di principio. Il quadro diventa più concreto se dalle convinzioni astratte passiamo ai dati concreti. Un altro documento, rilasciato dalla Commissione Ue, ossia l’European financial stability and integration review di aprile scorso, contiene un interessante focus proprio sulla CMU, e in particolare un approfondimento sul potenziale che può esprimere il risparmio previdenziale europeo sui mercati finanziari dell’Ue. La questione è interessante e in qualche modo coerente con lo spirito del tempo. Le politiche monetarie europee stanno già facendo pagare il prezzo ai risparmi dei cittadini, visto che i rendimenti sono praticamente azzerati o addirittura negativi per grandi classi di asset. E adesso i decisori mostrano di voler puntare sull’ultima forma di risparmio dei cittadini, ossia quella che deriva dagli accantonamenti previdenziali o assicurativi, per dare un calcione all’economia stagnante.
Non parliamo di piccola cifre. Fondi pensioni e assicurazioni europei cumulano insieme asset per circa 10 mila miliardi di euro, la gran parte dei quali posseduti dalle assicurazioni. Questi investitori istituzionali, quindi, contribuiscono già enormemente ai nostri mercati finanziari. La domanda è se e come la CMU potrebbe ulteriormente aumentare il contributo di questi risparmi alla crescita dei mercati finanziari. Che significa – di fatto – spostarne i rischi relativi sui legittimi detentori, ossia i risparmiatori a cominciare dai lavoratori. Questa strategia cela un pensiero semplice: poiché la finanza è malata, dobbiamo fare più finanza per farla guarire. L’eccesso come cura dell’eccesso. Vale d’altronde per la liquidità e i debiti, perché non dovrebbe valere per le attività finanziarie che fondo sono l’una e l’altra cosa insieme? L’esempio americano, che è la pietra di paragone costante dell’analisi della Commissione Ue, è chiaramente ciò a cui dobbiamo tendere perché giudicato, anche se surrentiziamente, ottimale. L’analisi della Commissione merita un rapido approfondimento. Nel paper di aprile scorso, che contiene un focus proprio sull’impatto della Cmu sulla finanza europea, viene sponsorizzata l’idea che “i fondi pensione possano diventare una più ampia e importante fonte di finanziamento a lungo termine per l’economia, favorendo lo sviluppo del mercato dei capitali nell’Ue”. Per motivare questa affermazione gli economisti provano a rispondere alla domanda se “i fondi pensione e le riserve delle pensioni pubbliche possono spiegare la differenza di taglia dei mercato dei capitali fra i singoli paesi”, vale a dire “se i fondi pensione e le riserve delle pensioni pubbliche abbiano un impatto sullo sviluppo del mercato dei capitali”. Teoricamente fondi pensioni e assicurazioni hanno le carte in regola per candidarsi a questo ruolo di “attivatori” di finanziamenti, anche perché in parte lo fanno già. Queste entità investono in diverse classi di asset: dal mercato obbligazionari, all’equity, al mercato immobiliare fino agli organismi di investimento collettivo (Undertakings for the Collective Investment in Transferable Securities, UCITS). Poiché questi organismi investono sul lungo termine, sono di fatto gli interlocutori ideali per progetti che garantiscano ritorni certi e stabili, anche se bassi, rispetto a quelli più rischiosi e quindi più remunerativi. Sono (o potrebbero essere) perciò degli stabilizzatori di un sistema potenzialmente instabile.
Ma ci sono alcune questioni pratiche con le quali bisogna fare i conti. La prima è che la distribuzione delle risorse di questi potenziali investitori è estremamente diseguale fra i paesi europei.  Alcuni paesi, come la Danimarca, la Finlandia, l’Olanda o il Regno Unito, esibiscono un vasto mercato per i fondi pensione privati. Altri, come l’Italia, assai meno. Quelli pubblici sono ancora più ridotti per la gran parte, con l’eccezione della Svezia. Il paragone con gli Usa è scoraggiante. Laggiù i fondi pensione privati hanno asset per il 73,8% del Pil, quelli pubblici pari al 16,5%. E ciò lascia ipotizzare che il maggior sviluppo dei mercati di capitale negli Usa trovi nella maggior dotazione di risorse di queste entità la sua ragion d’essere. Per dimostrarlo la Commissione ha svolto un’analisi su 67 paesi utilizzando l’indice FDI (Financial Development Index) che ha un range da 1 a 7. Gli Usa si collocano a 5,3. “C’è una relazione significativa fra la grandezza dei fondi pensione, pubblici e privati, e quella dei mercati finanziari”, osservano gli studiosi. Non solo: “C’è anche un relazione positiva fra la grandezza dei fondi pensione e il mercato dei bond privati”. L’analisi diventa interessante quando la Commissione svolge una simulazione per provare a calcolare quanto i fondi pensione potrebbero contribuire allo sviluppo finanziario se il mercato dei capitali europeo somigliasse a quello statunitense. Quindi fosse, coerentemente con quanto previsto dalla CMU, unificato. I risultati mostrano che “sia l’eurozona che l’Ue hanno una capitalizzazione di mercato azionario sotto quello che potrebbe essere stante l’attuale livello dei fondi pensione e di FDI, mentre gli Usa sono al di sopra”. Le stime calcolano che portando gli asset dei fondi pensione al livello degli Usa aumenterebbe la capitalizzazione di borsa del 31% e del 26% del Pil nell’euroarea e nell’Ue. Se poi si migliorassero gli altri fattori che influenzano gli sviluppi finanziari e si portasse il FDI al 5,3 (livello Usa) dall’attuale 4,3, la capitalizzazione aumenterebbe di un addizionale 23 e 21% per le due aree europee. In pratica arriveremmo al livello degli Stati Uniti. E questo in fondo è l’obiettivo. Avere un mercato europeo unificato che sia paragonabile a quello Usa. A questo serviranno i soldi dei lavoratori.

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