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ven 15 marzo 2019

BREXIT: TRISTE NOSTALGIA NAZIONALISTA

A pochi giorni dal fatidico “Brexit day” (fissato per il 29 marzo), la telenovela psicodrammatica del governo May si sta avvicinando alle battute finali. E mostra ciò che ha funestato e funesta il Regno Unito: una triste e fallimentare nostalgia nazionalista. E se l’esito della campagna per sganciarsi dall’Ue rimane ancora incerto, non si può dire lo stesso delle ragioni sociopolitiche alla base del disastro cui la comunità internazionale sta assistendo.

A pochi giorni dal fatidico Brexit day (fissato per il 29 marzo), la telenovela psicodrammatica sceneggiata dalla strategia del governo May si sta avvicinando alle battute finali. E mostra ciò che ha funestato e funesta il Regno Unito: una triste e fallimentare nostalgia nazionalista.
Tuttavia, che una delle principali potenze mondiali abbia così pervicacemente insistito in un esercizio autodistruttivo lungo ormai quasi tre anni, ha dell’incredibile.
E se l’esito della campagna per sganciarsi dall’Ue rimane ancora incerto, non si può dire lo stesso delle ragioni sociopolitiche alla base del disastro cui la comunità internazionale sta assistendo.
Nel 2015, quando l’allora primo ministro conservatore David Cameron lanciò (alla maniera di Fassino) il referendum su Brexit, l’obiettivo politico doveva essere ricompattare il Partito e soffocare nella culla la minaccia dell’avanguardia “sovranista” dell’Ukip di Nigel Farage.
“Sovranismo” che, ricordiamo, è neologismo cosmetico per tutti i rinnovati nazionalismi ben più vicini al Capitale (come sempre, nella Storia) di quanto non vogliano apparire.
La maggioranza di misura pro-Brexit, che quasi nessuno si sarebbe nemmeno mai sognato di prevedere, ha ottenuto precisamente l’opposto: carriera politica finita per Cameron, leadership Tory allo sbando, rilancio a livello internazionale di una retorica sovranista per la prima volta vincente alle urne referendarie.
La vittoria del “Leave”, col senno di poi, ha sostanzialmente funzionato da propulsore per una matrice ideologica nata all’indomani del trauma collettivo del 2008 e diffusasi a macchia d’olio in gran parte dell’Occidente.
Colpiti duramente dalla crisi economica portata in dote dalla globalizzazione alla maniera neoliberista, gli elettori del “Primo mondo” hanno trovato nella nostalgia dei presunti bei tempi che furono la terapia per affrontare le ansie del nuovo millennio.
Si tratta di una strategia vincente, come dimostrano i Salvini e i Trump della politica contemporanea, basata su un calcolo aritmetico puramente generazionale: i vecchi votano più dei giovani; i vecchi sono più dei giovani; il nostalgismo convince i vecchi più dei giovani.
Un quadro che emerge chiarissimo dall’analisi del voto in UK per il referendum su Brexit.
Schermandosi dietro alla “volontà popolare”, i Tory di Theresa May hanno funzionato da cavia per un esperimento osservato con interesse dalle cancellerie di mezzo mondo.
Se, spesso non senza ragione, l’Unione Europea funge da sacco da boxe per sfogare, a distanza, le frustrazioni di un sistema politico internazionale oramai totalmente esautorato dalla finanza globale, la trattativa tra Londra e Bruxelles per sciogliere il vincolo europeo è di fatto la prima prova sul campo del suo genere.
Nessuno mai l’aveva fatto e, alla luce di come sta andando, difficile che qualcun altro ci provi. In oltre due anni di colloqui fallimentari– sia tra Uk ed Eu, sia tra maggioranza e opposizione nell’Uk – l’intero sistema partitico del Regno Unito è oggi ridotto in macerie.
Per i “Brexiters”, la politica ha fallito nel mantenere la promessa referendaria, schiantandosi contro il muro di gomma dei vertici della Ue intenzionati a fare dell’affronto britannico un disastro esemplare.
Per i “Remainers”, l’opposizione portata dal Labour di Jeremy Corbyn ha mostrato tutte le crepe interne, rigettando a lungo l’appello per un secondo referendum “riparatore” che potesse permettere all’elettorato di esprimersi con maggiore cognizione di causa, avendo rettificato l’enorme mole di disinformazione profusamente disseminata da Farage e i suoi (in particolare sui fondi che il sistema sanitario nazionale avrebbe “recuperato” una volta lasciata l’Ue).
La crisi, insomma, è più che bipartisan e trascende gli scogli formali – su tutti, la questione dell’hard border in Irlanda del Nord – su cui si è incagliata l’amministrazione May.
Indipendentemente dall’epilogo dell’odissea Brexit, i sentimenti che hanno ispirato la peggiore destra britannica dal neofascista Tommy Robinson in giù, non sono destinati a scomparire.
E anzi, in circostanze apparentemente slegate dal tema, di recente sono riaffiorati nella tradizionale “violenza composta” locale.
Il mese scorso l’inviato speciale in Siria del «Times», Anthony Lloyd, pubblicava un’intervista scoop a Shamima Begum, cittadina britannica di origini bangladeshi scappata da Londra all’età di 15 anni verso il Califfato di Isis.
Begum, ora maggiorenne, incinta e sposata con un soldato dell’Isis di origini olandesi, dal campo rifugiati Onu per le famiglie di miliziani Isis ad al-Hawl faceva sapere di voler rientrare nel Regno Unito per dare al proprio futuro figlio un avvenire migliore.
Nella medesima intervista, Begum dichiarava anche di aver visto le teste mozzate di alcune vittime del Califfato e di essere rimasta “impassibile” di fronte ai resti di alcuni “nemici dell’Islam”.
L’appello di Begum ha aperto un dibattito nel Regno Unito, con l’opinione pubblica divisa tra chi avrebbe voluto far rientrare la ragazza, processandola, ma dando al futuro figlio la possibilità di una vita migliore e chi, per contro, spingeva per disconoscere la traditrice dei “valori british” (quali?), l’immigrata ingrata, lasciandola al proprio destino.
La posizione ufficiale del governo britannico, affidata al ministro degli interni Sajid Javid (Tory, nato nel Regno Unito da genitori pachistani), ha senza sorpresa assecondato la teoria del tradimento: Begum, nata e cresciuta nella “banglatown” londinese di Bethnal Green, per effetto di un’ordinanza ministeriale è stata ufficialmente privata della cittadinanza britannica.
Fonti del ministero trapelate sulla stampa locale hanno indicato che, eventualmente, Begum avrebbe potuto chiedere la cittadinanza bangladeshi e vedersela con Dhaka per la questione del rimpatrio. In Bangladesh.
Lo scorso 8 marzo un portavoce delle Syrian Democratic Forces ha confermato che Jarrah, il figlio di Begum, è morto a pochi giorni dalla nascita per una polmonite. Lo scaricabarile sul Bangladesh – rispedito al mittente da Dhaka – tentato dal governo britannico non ha innescato alcun moto d’indignazione nazionale.
La vicenda di Begum, che con violenza fa emergere il fallimento di una società britannica incapace di integrare realmente i cittadini ai margini, specie appartenenti a minoranze etniche e religiose, è tutto sommato passata sottotraccia.
Ovattata dalla bagarre per “riprendersi la sovranità”, riaffermare l’identità di un popolo, ritornare ai bei tempi dello stato nazionale che, nel Regno Unito, coincidono col fulgore dell’epoca coloniale.
Alzare i muri con l’illusione di ricompattarsi in un sedicente “popolo”. In realtà restare soli, vecchi, nostalgici e abbruttiti.

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