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MONITOR


mer 16 novembre 2016

BREXIT DA ESPORTAZIONE

Donald Trump, Nigel Farage e Stephen Bannon. Tenete a mente questi nomi. Pensate a cosa si muove sottotraccia sull’asse Londra-Washington, tra sorrisi, pacche sulle spalle e foto d’ordinanza per ammiccare agli estimatori in rete. La risposta non è del tutto chiara, ma quello che le cronache degli ultimi giorni raccontano è di una stretta connessione tra le due sponde dell'Atlantico. Il nuovo stratega del presidente Usa vorrebbe far passare per il predicatore del "Leave" tutto ciò che riguarda la Gran Bretagna prima di discuterne con Theresa May.

«Trump è l’antisistema. Riuscirebbe a fare quello che nessuna crisi ha fatto: accelerare il collasso. Ci consegnerebbe all’ignoto. Sarebbero gli Stati Uniti dei cowboys, come i fratelli Bundy». Da Elezioni Usa, il male minore — Il Tredicesimo piano
«Signore e signori, è il momento di dichiarare la nostra indipendenza economica», ripeteva in campagna elettorale Donald Trump. Adesso che il tycoon è neopresidente degli Stati Uniti, il Grand Old Party è de facto ostaggio delle sue parole, ovvero nelle mani di un uomo che al dio mercato oppone protezionismo misto a populismo di matrice nazionalista.

Dunque, avete presente i tre pilastri del partito repubblicano statunitense – almeno così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi anni? Ovvero: libero mercato, conservatorismo compassionevole e politica estera ambiziosa.

Ecco, dimenticate tutto.

Poi guardate esattamente dall’altra parte, alla sponda opposta dell’Atlantico.

Siete in Gran Bretagna, dove qualcuno aveva già usato una formula praticamente speculare a quella di Trump, sospesa tra nazionalismo nostalgico, mito dell’indipendenza e sfogo indiscriminato contro gli immigrati. Il suo nome è Nigel Farage, fondatore e leader dell’Ukip, già predicatore del Leave contro l’Unione europea, l’uomo che vorrebbe che il 23 giugno – il giorno del referendum sulla Brexit – diventasse festa nazionale, anzi “Independence Day”.
Proprio nelle ore in cui il verdetto popolare sanciva simbolicamente il divorzio di Londra da Bruxelles [il referendum era consultivo, ndr], Farage dichiarava: «Ora siamo finalmente liberi di iniziare a siglare i nostri accordi commerciali e i nostri rapporti con il resto del mondo. Ci lasciamo alle spalle un’Unione politica che sta fallendo».

Immaginate New York, la Trump Tower e un incontro che sta cambiando le connessioni atlantiche.

È il 12 novembre e il primo politico europeo a entrare nel regno del neopresidente Usa è proprio Farage. È stato anche l’unico, insieme all’olandese Geert Wilders, a prendere un aereo dal Vecchio continente per partecipare alla convention repubblicana di Cleveland. Al convegno GOP di luglio, Farage ha predicato il vangelo della Brexit, portando la sua “lezione” in terra straniera, come avevamo scritto qui.
Se in quell’occasione diceva: «Penso che ci siano un sacco di esperti repubblicani che stanno cercando di capire da vicino quello che abbiamo fatto e come lo abbiamo fatto», a vittoria di Trump consumata ha stabilito definitivamente la connessione atlantica con le seguenti parole, rilasciate in un’intervista sul suo account Twitter: «Sembra che il 2016 diventerà l’anno di due grandi rivoluzioni politiche».

Pensate a cosa si muove sottotraccia sull’asse Londra-Washington, tra sorrisi, pacche sulle spalle e foto d’ordinanza per ammiccare agli estimatori in rete.

La risposta non è del tutto chiara, ma quello che le cronache degli ultimi giorni raccontano è l’esistenza di un elemento di saldatura tra le due sponde dell’Atlantico. Porta il nome di Stephen Bannon, detto Steve, direttore esecutivo del sito di ultradestra «misogino e razzista» “Breitbart News”, da agosto a capo della campagna di Trump e fresco di promozione a policy advisor del neoeletto presidente, [qui il focus de “i Diavoli” sulla galassia dell’Alt-right in America]. Tra Farage e Bannon – e quindi con Trump –  sarebbe nata una sintonia politica particolare.
Stando a quanto scrive il “Telegraph”, il neoconsigliere di Trump avrebbe tutta l’intenzione di bypassare la premier britannica Theresa May e interfacciarsi direttamente con l’amico Nigel, in caso di necessità. La fonte è Arron Banks, ricco finanziatore dell’Ukip.
Stando alla sua versione, ci sarebbe un «filo diretto» tra i tre, e a Downing Street «non hanno idea di quanto sia stretta l’amicizia tra il presidente, Bannon e Farage (…): più vicini di così non potrebbero essere». Non pago di ciò, il nuovo stratega del tycoon vorrebbe «far passare per Farage tutto ciò che riguarda la Gran Bretagna prima di discuterne con la May».

Concentratevi sui fatti, mentre dalle alte stanze londinesi il portavoce di May smentisce che ci sarà un «terzo uomo» nei rapporti tra Gran Bretagna e Londra.

Al momento sappiamo che: 1) Farage da mesi è vicino a Trump, tanto da essere andato a Cleveland come «osservatore affascinato» per condividere «la lezione che la Brexit» serba per gli Usa; 2) Da convinto predicatore del Leave, il fondatore dell’Ukip vede in Trump «l’uomo con cui possiamo fare affari», come ha scritto lui stesso su Twitter, e si dice certo che «il suo sostegno al rapporto tra Usa e Regno Unito è molto forte»; 3) mentre le cancellerie europee fremono interrogandosi su come funzionerà l’esperimento “Brexitda esportazione”, il trio Donald-Nigel-Steve si diverte a raccontare alla stampa di avere in mente di «riportare Winston Churchill nello Studio Ovale» [Il riferimento è allo spostamento del busto, che qualche mese fa sarebbe stato oggetto di tensione tra Boris Johnson e l’allora presidente Barack Obama, ndr].

Poi ricordate cosa succedeva solo qualche mese fa

Era luglio, Farage non era ancora andato negli Stati Uniti alla convention del GOP e, parlando di implementazione della Brexit,dichiarava: «La rinegoziazione non avverrà a Bruxelles. Sarà negli impianti di produzione auto in Germania, o durante la stagione della vendemmia a Bordeaux. È da lì che arriva la pressione dei governi nazionali ed è da lì che verrà un trattato commerciale sensibile».
I concetti chiave di quella che sarebbe stata la sua futura traversata oceanica erano tre: sovranità nazionale, accordi commerciali, interscambi. Il discorso si basava, dunque, su un nazionalismo d’altri tempi, che reclamava (e reclama) una maggiore autodeterminazione interna rispetto all’egemonia della globalizzazione, come avevamo scritto qui.
Noi de “i Diavoli” ci ponevamo le seguenti domande per cercare di capire la posta in gioco sull’asse Londra-Washington: la determinazione nazionale deve prevalere sul mito del mercato unico globale? In che termini?
Oggi ancora di più che mesi fa, tutto ci riconduce al “trilemma della globalizzazione, teorizzato dall’economista turco Dani Rodrik. Il suo ragionamento è articolato così: autodeterminazione nazionale, democrazia e globalizzazione faticano a convivere insieme e contemporaneamente.
Dunque, la Brexit, così come le sparate isolazioniste di Trump, presentano delle scorciatoie a ciò, che però eludono la questione di una riforma radicale degli assetti globali. E intanto il “populismo” nazionalista la fa da padrone.
«Gli appuntamenti elettorali e referendari sono ingovernabili. Il voto è una delle poche variabili che ancora sfuggono alle logiche algoritmiche. Il ruolo della paura ha perso efficacia, la disillusione orienta verso cambiamenti sempre più radicali. Il mondo intrusivo dei big data può determinare tendenze di consumo e di comportamento, ma non riesce a governare le emozioni. Il voto è pre-razionale, per alcune fasce della popolazione, e quindi diventa illeggibile, per noi».
Da La biofinanza contro la rabbia e il dissenso. Il Tredicesimo piano

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