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MONITOR


mer 25 gennaio 2017

LA BREXIT DELLE CONTRADDIZIONI

Theresa May chiude all’Europa, sì, ma apre agli Stati Uniti e fa piombare la Brexit in una dimensione "global". Il "fiscal dumping" è la sua grande minaccia rivolta agli euroburocrati, (e non solo). Qui si nasconde il paradosso: se le banche della City perderanno la licenza di operare in Europa, a quel punto Londra giocherà la sua carta e proverà a richiamare i capitali europei attraverso le agevolazioni fiscali. Il «popolo» del Leave, quello al quale May aveva promesso che «Brexit significa Brexit» aveva proprio rifiutato questo modello. Quelle stesse forze invocavano uno stop alla globalizzazione, proprio mentre le multinazionali non vogliono ostacoli né frontiere.

Guardare oltre l’Europa, i suoi paletti, le decisioni collettive, il predominio tedesco. Puntare agli Stati Uniti di Donald Trump che non aspetta altro che insinuarsi tra le beghe del Vecchio Continente. Sognare una global Britain.
Il dopo-Brexit firmato da Theresa May si anima di minacce che suonano come un bluff. Sì alla globalizzazione, al libero commercio e al libero mercato, ma «con la determinazione che al centro della politica mainstream tornino le preoccupazioni del popolo».
Quel popolo è fatto di tanti Daniel Blake, come nel film di Ken Loach. Vive nell’inferno UK di oggi, dove lo stato sociale è stato smantellato.
Della working class che sapeva “tenere”, non è rimasto niente. L’orgogliosa appartenenza di classe è sprofondata in un abisso di solitudine. Le pratiche di resistenza collettiva sono infrante. E così, anche le storie devono cambiare. (Da UK, benvenuti all’inferno)
Theresa May parla di quegli invisibili, ma non è a loro che rivolge le sue attenzioni.
L’ex ragazza diligente, cresciuta a pane e conservatorismo British, e ora premier incaricata del traghettamento del Regno Unito fuori dall’Unione europea, una settimana fa la voce grossa al Forum economico di Davos davanti a banchieri e leader mondiali e un’altra è pronta a volare a Washington per incontrare il nuovo presidente degli Stati Uniti e tessere una nuova tela di rapporti commerciali.
Forte della vittoria di Trump alla Casa Bianca, May leader spesso troppo vaga, ha provato a percorrere la via delle minacce: «Dobbiamo prepararci a un negoziato duro» con l’Ue.
L’obiettivo è «stabilire il ruolo» inglese su scala globale e tessere accordi commerciali «non limitati all’Europa, ma vadano oltre».
Ha parlato addirittura di «assumere la leadership mondiale del libero commercio e del libero mercato» per una Gran Bretagna «davvero globale».
Il meccanismo è più o meno il seguente: Theresa May gioca la carta dello spauracchio all’Ue, rispolvera un linguaggio sovranista in patria (che è quello di riferimento di chi ha votato Brexit) eliberista sui mercati, mentre le banche di investimento scappano da Londra.
Tutto in nome del «popolo», quello stesso popolo che ha votato per la Brexit e che in fondo rifiuta la globalizzazione e le sue dinamiche che hanno solo allargato il gap sociale e le disuguaglianze.
Stritolato tra il sacco della previdenza svenduta ai privati e le logiche di austerità, il welfare state universalistico tramonta all’orizzonte del Settentrione d’Inghilterra, mentre il corpo e la salute diventano l’ultimo, definitivo bacino d’estrazione. (Da UK, benvenuti all’inferno)
Succede mentre invoca una Gran Bretagna global, ignorandone l’altra faccia: quella di paradiso fiscale. Come è possibile che questa due anime possano convivere?
Oggi, UK rappresenta una delle mete privilegiate. Su scala globale, a questa forza centrifuga ne corrisponde una centripeta e attrattiva. Dovete pensare Londra come una calamita capace di attirare capitali esteri su scala planetaria, grazie a una burocrazia snella e a una scarsa regolamentazione. (Da Brexit tra turisti del welfare e turismo del capitale – Il Tredicesimo piano).
E ancora: se il sovranismo è stata la parola d’ordine degli invisibili made in UK che volevano il divorzio da Bruxells, questo significa: 1) niente più accordi commerciali elaborati in collettiva Ue; 2) libertà totale rispetto alle decisioni della Corte di giustizia europea; 3) una politica fiscale autonoma; 4) gestione sovrana delle questioni legate all’immigrazione.
Theresa May chiude all’Europa, sì, ma apre agli Stati Uniti e fa piombare la Brexit in una dimensione global. Il fiscal dumping è la sua grande minaccia rivolta agli euroburocrati, (e non solo).
Qui si nasconde il paradosso: se le banche della City perderanno la licenza di operare in Europa, a quel punto Londra giocherà la sua carta e proverà a richiamare i capitali europei attraverso le agevolazioni fiscali.
Il «popolo» del Leave, quello al quale May aveva promesso che «Brexit significa Brexit» aveva proprio rifiutato questo modello. Quelle stesse forze invocavano uno stop alla globalizzazione, proprio mentre le multinazionali non vogliono ostacoli né frontiere.
Cambia il linguaggio. May “tradisce” gli invisibili che hanno votato Leave e quella provincia britannica impoverita dalla svendita delle previdenze ai privati, dove il welfare state si è polverizzato.
Il 2017 sarà l’anno di questa ambivalenza, il tempo del dopo-Brexit e delle sue contraddizioni. Intanto la Corte Suprema di Londra ha deciso: la notifica dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona che fa scattare i negoziati con l’Ue dovrà essere autorizzato da un voto del Parlamento.
I tempi si allungano e sembra proprio un intoppo per quella hard Brexit targata May…

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