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MONITOR


ven 6 luglio 2018

IL BREVE PASSO DAL DECORO AL CENSIMENTO

Due pellicole, una più vecchia e l’altra recentissima che, a distanza di oltre vent’anni l’una dall’altra, fanno dialogare i tempi e svelano le medesime inquietudini del contemporaneo, oggi ancor più esacerbate. Ben oltre i limiti della fiction, però, sarebbe ora da chiedersi che ne è stato dei personaggi di questi film, rimbalzati via da un muro di parole e sguardi ostili. L’inquietante scenario che si prospetta è di ritrovarli insieme nella stessa fila, in una giornata di sole e aspettando che qualcuno li “schedi”, per il solo fatto di essere rom. Perché dalla pretesa di un fantomatico “decoro” all’orrore del “censimento” il passo sembra essere assai breve.

Pietro Di Leo ha trentasette anni, è milanese, separato, padre d’un bambino che vede solo nei fine settimana. Lavora in un grande magazzino della città come addetto alla sicurezza interna e al decoro. Improvvisamente incontra Pabe, giovane rom italiana di cui si innamora follemente.
Siamo nel ‘93 e Silvio Soldini ci racconta, attraverso la pellicola Un’anima divisa in due, la storia di un amore impossibile in cui il radicamento verso la comunità e lo spirito del nomadismo si scontrano con la liturgia di una vita ordinaria e piccolo borghese.
Lui vuole comprare mobili all’usato, lei dormire sotto le stelle. Il film  è la storia d’una mancata unificazione, e non tanto fra due culture diverse, quanto fra un uomo costretto nell’ordinarietà e una donna protesa al disordine, in un rapporto contrastato in cui ciascuno dei protagonisti perde il proprio mondo senza afferrarne uno alternativo.
L’ossessione di Pietro di fare della donna amata un’ordinaria sciuramilanese e il costante desiderio di libertà di Pabe, a cui manca il brusio e l’allegria dei capannoni in cui è cresciuta, disegna uno spaccato crudo e impietoso sul prezzo che si paga a non voler riconoscere la ricchezza delle origini dell’altro.
Negare o rinnegare la propria storia non prevede l’happy ending. E senza lieto fine Soldini chiude il sipario della sua pellicola, col dettaglio sugli occhiali da sole di Pabe che riflettono un grande spiazzo vuoto nella periferia milanese, il luogo dove in precedenza era accampata la sua gente e che ora è stato “ripulito”.
L’ultimo fotogramma rappresenta una donna, l’immagine di chi non appartiene più a nessuno, essendosi lasciata un amore chimerico alle spalle e davanti a sé la sola coscienza di essere stata rimossa
2017, a Gioia Tauro esiste una sorta di enclave, la Ciambra, costituita da capannoni e lamiere in cui vive la comunità rom calabrese. Non troppo distanti, ci sono gli africani.
Il regista Jonas Carpignano ci racconta la storia di Pio, giovanissimo rom italiano, poco più di un ragazzino, alla ricerca ostinata e caparbia di un punto di riferimento, di una ragione d’appartenenza, che lo faccia sentire più “uomo”.
Dopo che il fratello e il padre sono tratti in arresto per un furto, e nonostante nessuno gli riconosca un simile ruolo o glielo faccia gravare sulle spalle, Pio sente di dover occuparsi della famiglia, di dover portare i soldi a casa.
Ma muovendosi da cane sciolto finisce per entrare in contatto con gli immigrati africani, invisi alla sua comunità, e per i quali lui, al contrario, comincia a nutrire empatia e curiosità.
Pio è spontaneo e scevro di pregiudizi, perché vive la strada e tratta chiunque allo stesso modo, compresi i «marocchini», come la sua famiglia definisce tutti gli africani, con una punta di diffidenza mista a disprezzo.
Eppure la sua genuinità dovrà fare i conti con una doppio fronte: quello esterno della società benpensante e repressiva, e quello interno degli equilibri di potere, che ovunque si riproiettano.
Con un ritmo incalzante e un susseguirsi di scene mai retoriche, il film trascina lo spettatore nella cruda realtà di chi – sia rom o africano – è quotidianamente oggetto di odio e paura, salvo l’essere avvicinato – dalle ‘ndrine e non solo – quando servono mani svelte o avvezze alla fatica, da sfruttare.
In questo senso la pellicola di Carpignano rovescia radicalmente l’equazione tornata in auge di bontà=decoro, dimostrando che i comportamenti poco ortodossi agli occhi dei benpensanti non solo sono frutto di ragioni materiali e ben circostanziate, ma ci pongono davanti a conflitti e contraddizioni che è necessario riportare a galla e affrontare.
Sono il prezzo che deve pagare chi non ha nulla e lotta ogni giorno per stringere qualcosa. E nonostante questa lotta, non rinuncia a empatizzare con l’altro, semplicemente perché non può permettersi un simile lusso.
Soldini nei primi ‘90 e Carpignano oggi valicano le frontiere con una poetica oltranzistica, e le due pellicole – oltre a un fulgido spaccato sociale – diventano entrambe metafore interiori di un mondo ai margini, da una parte fiero della propria appartenenza, ma dall’altra capace di riconoscere l’altro senza giudicarlo.
Sono proprio Pabe e Pio a guardare il mondo senza filtri aprioristici e a viverlo con coraggio in tempi in cui la paranoia securitaria e il sedicente “decoro” sono divenuti il mantra che scandisce le nostre giornate.
I due film, a distanza di oltre vent’anni l’uno dall’altro, possono far dialogare i tempi e ribadirci una cosa semplice che forse abbiamo dimenticato: i più grandi atti politici non vanno esibiti o incasellati ideologicamente, ma raccontati nella loro spontaneità e senza mai eluderne le contraddizioni.
Oggi, però, e oltre i limiti della fiction, sarebbe da chiedersi che ne è stato delle tante Pabe, probabilmente rimbalzate nella loro comunità da un muro di parole e sguardi ostili, e cosa ne sarà dei tanti Pio, costretti a bruciare le tappe per apparire più “uomini”.
L’inquietante scenario che si prospetta è di ritrovarli nella stessa fila, in una giornata di sole e aspettando che qualcuno li “schedi”, per il solo fatto di essere rom.
Perché dalla pretesa di un fantomatico “decoro” all’orrore del “censimento” il passo sembra essere assai breve.
Alle luce dei recentissimi provvedimenti proposti da Lega e Forza Italia in Lombardia, sulla scia delle gravissime direttive ventilate dal Ministro dell’Interno, è doveroso e incondizionato ribadire che il censimento su base etnica dei rom, oltre che disumano al solo pensiero, è contrario all’articolo 3 della Costituzione italiana, che stabilisce quanto segue.
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.»
L’ultimo censimento operato in Italia risale al 1938, era rivolto agli ebrei e fu il prodromo delle Leggi Razziali. E trovò la sua ragion d’essere non solo nell’imposizione dittatoriale dall’alto, ma anche e soprattutto nel consenso di chi lo accettò con passività, essendo stato prima narcotizzato dai concetti di “decoro”, “ordine” e “pulizia”, e poi ossessionato da quelli di “paura” e “invasione”.

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