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MONITOR


mar 12 dicembre 2017

BITCOIN E ANARCHIA DIGITALE MADE IN CHINA

Se oggi il mercato Bitcoin è aperto anche all’investitore casuale, che può acquistare criptovaluta già “scavata” dai grossi miner, i sospetti su chi possa decretare il futuro di questa moneta virtuale portano dritti dritti alla Cina.

Il 31 ottobre 2008, un mese e mezzo dopo la dichiarazione di bancarotta di Lehman Brothers, l’utente Satoshi Nakamoto inviava agli iscritti della Cryptography Mailing List di metdzdowd.com il seguente messaggio: «Ho lavorato a un nuovo sistema di contante elettronico completamente peer-to-peer, libero da qualsiasi garante terzo. Il paper è disponibile su Bitcoin.org».
Al pari delle religioni monoteiste, il culto del Bitcoin esordisce con una sacra scrittura rivelata dal Creatore Onnipotente, chiunque si celi dietro al nickname Satoshi Sakamoto, agli adepti della prima ora, convinti della necessità di una rivoluzione finanziaria di stampo anarchico. Sakamoto, nel suo “Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System”, illustrava le caratteristiche tecniche di un sistema di pagamento alternativo e innovativo, fondato sull’iniziale professione di fede nella criptovaluta.
La nuova valuta digitale, transnazionale e senza un corrispettivo tangibile nel mondo fisico, avrebbe dato la possibilità di bypassare le valute tradizionali – legate a governi, stati-nazione e banche centrali – permettendo transazioni virtuali da persona a persona, senza l’interferenza di autorità garanti.
In assenza di una banca centrale responsabile della stampa e distribuzione della valuta, fissando un tetto massimo di 21 milioni di unità, i Bitcoin vengono progressivamente “creati” da un algoritmo che formula un calcolo computazionale di difficoltà progressiva, risolvibile esclusivamente avvalendosi di calcolatori ad hoc: una volta risolto il puzzle, il corrispettivo “premio” (in criptovaluta) viene accreditato sul conto anonimo del risolutore – nel gergo tecnico, il miner.
Lo stesso processo di risoluzione funge anche da garanzia dell’unicità di ogni transazione: quando un Bitcoin viene speso, la traccia della transazione viene registrata da tutti i miner, formando uno storico pubblico di tutte le transazioni, chiamato blockchain. Questo enorme libro contabile virtuale, con elencati i numeri di conto anonimi e l’entità delle transazioni in Bitcoin completate, di fatto sostituisce la garanzia di liquidità provvista dalle banche che di fatto, nell’universo delle criptovalute, diventano obsolete.

Di primo acchito questo sistema di pagamento parallelo alle convenzioni di Bretton Woods e allo strapotere nominale del dollaro poteva sembrare una follia distopica, ma in un’epoca in cui gli scricchiolii del capitale portavano a movimenti tellurici devastanti come la crisi del 2008, l’ipotesi di sganciarsi dalla madre di tutte le convenzioni economiche del mondo moderno meritava perlomeno il brivido dell’esplorazione.

Nel giro di pochi anni, passando dalle fasi di giochino elitario e “valuta del malaffare”, il Bitcoin si è imposto come buzzword del momento, forte di un aumento del proprio valore nominale senza eguali nell’ambiente valutario. Nel 2013, uno solo valeva 12 dollari; mentre scriviamo, martedì 12 dicembre 2017 (sicuri di pubblicare un’informazione già vecchia quando leggerete questo pezzo), un bitcoin vale 15.230 dollari, più del doppio di quanto valeva solo un mese fa.
Col diffondersi dell’entusiasmo collettivo per l’affare Bitcoin, esattamente come in Borsa, chi per primo ha consolidato la propria posizione nel mercato della criptovaluta oggi siede letteralmente su una valanga di milioni di dollari, con unità di Bitcoin che valgono mille volte quanto valevano solo quattro anni fa.
Secondo gli osservatori, siamo di fronte a una gigantesca bolla speculativa che più si ingrossa, più rischia di esplodere.
Come spiega Derek Thompson su The Atlantic: «Bitcoin sta diventando un richiamo per i “greater fool”. I piccoli investitori si stanno lanciando sul mercato comprando Bitcoin aspettandosi di essere in grado di rivenderli a qualche altro stupido che verrà dopo in cambio di denaro contante. Nel mese di novembre, Bloombergnotava che “buy Bitcoin” aveva superato “buy gold” sui motori di ricerca online».
In un mercato in cui il valore della valuta si misura esclusivamente sull’entusiasmo collettivo, chi ne detiene grosse quantità ha il potere di far saltare letteralmente il banco, lasciando tutti gli altri con un pugno di mosche virtuali.
Olga Kharif, su Bloomberg, spiega: «Approssimativamente, il 40 per cento dei Bitcoin in circolazione è nelle mani di un migliaio di utenti; coi prezzi che corrono, ognuno potrebbe voler vendere anche solo metà del proprio portfolio, dice Aaron Brown, ex managing director e capo delle ricerche di mercato finanziario per AQR Capital Management. Inoltre, queste cosiddette “balene” possono coordinare i propri movimenti sul mercato o anticiparli a pochi eletti. Molti dei grandi investitori in questo settore si conoscono da anni e si sono tenuti stretti i loro Bitcoin quando il resto del mondo li derideva; ora possono potenzialmente unirsi per far crollare il mercato o per gonfiarlo».

Intorno alle identità dei grandi miner globali si gioca oggi la speculazione sulla sopravvivenza di Bitcoin sia in termini economici – ovvero, per quanto ancora rimarranno un buon investimento – sia in termini “ideologici”, cioè se questa criptovaluta sarà in grado di mantenersi un sistema di pagamento davvero indipendente, transnazionale e libero dal gioco di autorità superiori. Se oggi il mercato Bitcoin è aperto anche all’investitore casuale, che può acquistare la moneta virtuale già “scavata” dai grossi miner, i sospetti su chi possa decretare il futuro di questa moneta virtuale portano dritti dritti alla Repubblica popolare cinese.

Emily Parker, in questo lungo articolo pubblicato su Technology Review, illustra la luna di miele tra gli investitori cinesi e Bitcoin. Nel 2016, la maggioranza assoluta delle transazioni Bitcoin sono state fatte in yuan cinesi, tanto da destare le preoccupazioni del governo cinese.
«È facile capire come mai così tanti cinesi siano attratti da Bitcoin. Nell’ultra-regolamentato ambiente finanziario cinese, la speculazione valutaria rappresentava una delle poche opzioni di investimento per i piccoli investitori, spiega Zennon Kapron (autore del volume “Chomping at the Bitcoin: The Past, Present and Future of Bitcoin in China”, ndr). Nel 2013, la borsa di Shanghai era al di sotto delle aspettative da anni. I prezzi degli immobili erano troppo alti per la gente normale, ma si poteva comprare una frazione di Bitcoin anche per un solo dollaro. Entro la metà del 2013, le transazioni cinesi muovevano 35 milioni di dollari in B. al giorno».
Per fermare un’emorragia di valuta nazionale sempre più preoccupante e cercare di controllare la frenesia della criptovaluta, all’inizio del 2017 Pechino è passata al contrattacco.
«Nel gennaio 2017, BTCC (uno dei principali agenti di cambio di Bitcoin in Cina, ndr) è finito sotto indagine della Banca centrale cinese. Nel mese di settembre, la Cina ha annunciato il divieto delle “initial coin offerings” (ICOs), un popolare modello di fund-raising per startup che utilizza monete digitali. […] Nello stesso mese, le autorità cinesi hanno chiarito che BTCC e tutti gli altri agenti di cambio valuta virtuale dovevano chiudere, in un tentativo di rendere più difficile per il grande pubblico l’entrata nel mercato dei Bitcoin».
È interessante notare come le autorità cinesi abbiano imposto un giro di vite ai Bitcoin esclusivamente per quanto riguarda il settore cambiavalute: Pechino non vuole che i cinesi comprino Bitcoin con i propri yuan – un facile metodo per portare all’estero i capitali – ma non ha alcuna intenzione di mettere i bastoni tra le ruote ai miner, i “creatori” di bitcoin.

Come spiegato da Alexey Malanov in un articolo-debunking su Kaspersky, oggi l’81 per cento delle attività di mining di Bitcoin avviene dentro i confini della Repubblica popolare, avvalendosi di vere e proprie “miniere digitali” dove supercomputer risolvono ininterrottamente i puzzle generati dall’algoritmo di Bitcoin, premio nuova valuta digitale.

Spiega Parker:
«Fino a settembre 2017, oltre due terzi dei Bitcoin in circolazione erano made in China. Gran parte dell’hardware utilizzato per il mining è prodotto in Cina. I computer dei miners richiedono enormi quantità di energia e diversi computer cluster cinesi impiegati nel mining godono di tariffe agevolate per l’approvvigionamento di elettricità (spesso sorgono vicino a centrali elettriche, ndr)».
Non solo il sistema Bitcoin ha dimostrato di saper reggere le incursioni, seppur parziali, del gigante cinese, ma il blockchain alla base della valuta virtuale sembra ingolosire Pechino, come ha spiegato a Parker il professor Ben Koo della Tsinghua University: «Il governo centrale intende usare la blockchain per garantire la fiducia di dati pubblici e amministrativi, ma non intende permettere alla gente di stamparsi i propri soldi». Anarchia digitale, con caratteristiche cinesi.

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