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VISIONI


ven 23 febbraio 2018

ALBA SULLA MEGALOPOLI PADANA

Chignolo, Badia Pavese, Pieve Porto Morone. Nomi mai sentiti di paesi mai esistiti. La megalopoli padana è un reticolato di cellule morte volte a comporre un sistema di produzione, trasporto e consumo che non lascia memorie e ricordi. Delete. Un’accelerazione costante contro un tempo che frantuma e disgrega il corpo senza organi del nuovo operaio. Se prima bisognava ribellarsi alla macchina, oggi bisogna ricomporsi contro l’algoritmo, con la pallida speranza di una nuova alba.

Il minivan
Il minivan Volskwagen corre veloce lungo la SS412. La Strada Statale della Val Tidone è quasi deserta, poche auto la attraversano sonnacchiose in questa placida domenica della vigilia di Natale. Benji e Fede sono in perfetto orario, secondo la tabella di marcia studiata la notte precedente. Arrivata al terzo vodka tonic, ingollato con foga in un bar di Calvairate, l’idea di evitare l’Autostrada del Sole a favore dell’ex strada vicinale della bassa padana si è rivelata vincente. Sul display dei telefonini pulsano compulsivamente gli avvisi di chiamata del caporeparto della multinazionale, del dipartimento risorse umane della multinazionale, del padroncino della cooperativa che li ha assunti a cottimo e presta il loro lavoro alla multinazionale.
Oggi non si sono presentati al lavoro, e oggi è la giornata più importante dell’anno: è la stramaledetta vigilia di Natale, ci sono centinaia di consegne da fare. I due ragazzi ignorano i led lampeggianti. Proseguono. Hanno un piano.

La Twingo
Maria conosce bene le strade del reggiano, per averle attraversate innumerevoli volte con la sua vecchia Twingo verde scolorita. Ha deciso di partire nella notte, per evitare il traffico, continua a ripetersi. Per non dovere salutare i suoi bambini, che dormono a casa della nonna, nella vecchia roccaforte longobarda di Guastalla. Stanno lì da almeno un anno. Quando ha visto sorgere l’alba, Maria per un attimo si è scoraggiata. Ha deciso di chiamare il suo superiore per avvertirlo che non sarebbe andata a lavoro. Maria lavora per Tropical, la più grande multinazionale di vendita e distribuzione online, e più precisamente nell’immenso Hub di Castel San Giovanni: 70 mila metri quadrati di magazzino dove 40 bocchettoni inghiottono e sputano incessantemente per 24 ore al giorno la merce, che poi viaggia su un nastro trasportatore dalla lunghezza complessiva di 20 chilometri.
Per otto, nove, dieci ore al giorno, Maria preleva o poggia sul nastro trasportatore. Un’operazione massacrante, da ripetere senza sosta.
Una danza macabra e robotica. Maria non vuole più ballare.

La Tipo
La scelta, obbligata, è la SS472. La maledetta Bergamina, che tutte le statistiche indicano come una delle più pericolose, con il più alto rapporto tra chilometri e morti. Diego lo sa, ma non ha alternative. Non ne ha mai avute. Come tutti quelli nati al Sud di un qualsiasi Nord. Padre che entra ed esce dalla prigione, madre casalinga, si dedica subito a uno studio matto e disperatissimo per uscire dalla miseria. A suon di borse di studio arriva all’Università, al dottorato. Poi capisce che non è cosa. Baroni e clientelismo non gli permetteranno una cattedra, a dir la verità nemmeno uno stipendio. Diego prova la fuga al Nord, a bordo della Fiat Tipo della zia.
Ancora non lo sa, ma a breve quella macchina diventerà la sua casa. Sono mille lavoretti saltuari, senza prospettive, come in Università. Fino a che l’enorme complesso di 240 mila metri quadrati della ex Agip di via Rossini, a Casirate d’Adda, provincia di Bergamo, si rivende alla logistica.
E assume. Negli anni Settanta in quella zona l’Eni trova il petrolio, negli anni Dieci l’Eni affitta il terreno ai magazzini dell’immensa megalopoli padana. In quell’escrescenza tumorale di terra afflitta dall’avanzare delle Alpi, c’è la storia d’Italia.

Il furgone
L’ammasso di ferraglia rotola incerto sull’autostrada. Prima la A26, poi la A21. Impossibile prendere strade secondarie, almeno per lui. Un nero alla guida di un vecchio furgone scassato all’alba della vigilia di Natale è quantomeno sospetto. Soprattutto ora, che il mood nel paese è quello di sparare a vista e solo in seguito chiedersi chi era il bersaglio. In fondo è anche la strada più breve che collega Larizzate, provincia di Vercelli, a Castel San Giovanni, provincia di Piacenza, dove sorgono due dei più grandi centri di raccolta e smistamento merci di Tropical: la multinazionale più in voga del momento.
Abd a Vercelli ci è finito dopo un lungo viaggio, cominciato a piedi in Africa e continuato abbracciato al tubolare di un gommone nel Mediterraneo in tempesta. È una vecchia storia ormai, e Abd non ha nemmeno più voglia di raccontarla, preferisce pensare al presente. Al calcio, alla birra, alle donne. Alla politica, che è diversa dalla guerra, e lui in Congo l’ha vissuta, ma per alcuni aspetti è anche peggio.
Ora Abd è sindacalista, ma quello che sta facendo oggi se non lo sanno i padroni, non lo deve sapere neppure il sindacato.

La Smart
Per fortuna che c’è il navigatore, di serie, così è certa di arrivare. Strade secondarie, mai viste. In fondo chi è mai uscito da Milano. Sara in città ci è nata, e tranne qualche colonia estiva, un weekend a Parigi con un fidanzato e qualche viaggetto con le amiche, ne è uscita pochissimo. Di buona famiglia, buoni studi, a un certo punto i soldi sono venuti a mancare. Pian piano, senza che nemmeno se ne accorgessero. Sara fa in tempo a studiare, si laurea anche, ma la cosa non l’aiuta nella ricerca del lavoro. All’inizio qualcosa da amici di famiglia, poi anche loro non se lo possono permettere.
Sara manda curriculum ovunque, accetta qualsiasi tipo di lavoro temporaneo, i periodi di disoccupazione diventano sempre più frequenti. Sempre più lunghi. Superati i trent’anni, vive ancora in casa con i genitori. Non ha prospettive, non può averle. Sara manda curriculum ovunque, accetta qualsiasi cosa, fino al magazzino di Tropical di Affori, quartiere a nord di Milano.
La mancanza di un reddito, e non certo di un lavoro, è la vera ragione della crisi esistenziale, sua e della sua generazione. Non si può, non dico programmare, ma nemmeno immaginare nulla. E se ti tolgono l’immaginazione, la fantasia, ti hanno tolto la vita. Ti hanno ucciso.
Il minivan
Benji e Fede si sono conosciuti giocando a basket nei campetti di cemento incastrati tra i palazzoni di Corvetto. Poi l’idea di mettere su una startup di cambio merce a domicilio, per clienti danarosi che volessero restituire il capo appena acquistato e già ritenuto inidoneo. Sembra una trovata geniale, la via di uscita dalla periferia esistenziale in cui li ha condannati la loro condizione geografica. Ma la burocrazia statale si mette di traverso. Tra documenti, fax e marche da bollo, la startup si estingue, così come svanisce l’entusiasmo dei due ragazzi, che grazie a un amico trovano lavoro come driver per una cooperativa che li presta alla multinazionale.
Lo stipendio è buono ma i turni sono massacranti: per rispettare le consegne allungano anche di due o tre ore al giorno oltre l’orario stabilito, mangiano sul sedile passeggero quando l’altro è alla guida, dormono male e saltuariamente. Dimagriscono a vista d’occhio, sono sempre nervosi.
E anche i soldi invece che aumentare diminuiscono drasticamente. I permessi per entrare in centro a Milano sono a carico loro, le multe anche. Tropical sostiene che paga un forfettario alle cooperative, per coprire le consegne nelle aree a pagamento, che sono ovviamente molte di più di quelle in periferia, ma la cooperativa scarica le spese sui driver. I debiti per comprare il minivan faticano a essere ripagati. Passano nemmeno due anni e anche la stanza dell’appartamento di Piazza Insubria, che condividono con alcuni studenti fuorisede, diventa troppo cara. Benji e Fede cominciano a dormire nel minivan.

La Twingo
Mentre la Twingo sfreccia lungo le fangose strade secondarie del piacentino, Maria ripensa ai regali che ha lasciato sotto l’albero per i bambini. Ripensa alla fabbrica di tegole di Ardesia in cui ha lavorato da quando aveva sedici anni, alla sua chiusura, in seguito all’esplosione della bolla delle piccole imprese del Nordest, che aspiravano alla Baviera e sfruttavano il lavoro come in Pakistan. Ripensa ai soldi che piano piano spariscono, e non bastano più per mantenere i bambini, e una casa per i bambini. Al marito, anche lui disoccupato,che li abbandona per cercare fortuna in Costa Rica. Alla decisione di mandare i bambini a vivere con la nonna.
Ripensa alla scelta di vivere in macchina, dormendo nelle aree di sosta delle superstrade padane, in perenne spostamento da un lavoro saltuario all’altro.
Ai regali che ha lasciato sotto l’albero per i bambini. Ripensa a quando ha letto su un giornale che il fondatore della Tropical ha istituito un programma per i nuovi nomadi del lavoro, vantandosi di come «entro il 2020 almeno un quarto delle persone che vivono in macchina lavoreranno o avranno lavorato per la Tropical». Ripensa al nuovo impiego che ha trovato quando la multinazionale della logistica ha aperto il più grande Hub europeo a poche ore di macchina da casa. Ai centinaia di chilometri percorsi ogni giorno, alle ore più impensabili, per rinchiudersi in quel magazzino a spostare pacchi. Ripensa ai regali che ha lasciato sotto l’albero per i bambini. E sorride.

La Tipo
La macchina di Diego si è oramai lasciata alle spalle Lodi ed è in vista delle paludi infestate e infette del fiume Po. Il motore vecchio e decrepito, più che contro l’attrito della strada deve combattere contro l’umidità. Fossimo in Arizona, o in un film di Hollywood sull’Arizona, tutto intorno ci sarebbe un orizzonte in cui perdersi. Una frontiera da raggiungere e superare.
Ma qui siamo in Padania, e tutto quel che c’è è una calotta plumbea di cielo che ti imprigiona e si prepara a chiudersi su di te, per sempre. Diego spinge sull’acceleratore. Eccezionalmente oggi è il suo giorno libero, i turni della Tropical possono anche regalarti una vigilia di Natale a casa. O in macchina, se una casa non ce l’hai.
Oggi però non era giorno da rimanere fermi, oggi è giorno da andare. Quando gli arriva l’e-mail che gli propone di partecipare alla corsa, Diego non ha esitazioni. Sa che insieme a lui c’è un esercito di riserva, composto da disperati, che macinano centinaia di migliaia di chilometri all’anno per la Pianura Padana, un esercito che tutto quello che possiede è la macchina in cui vive. Dà un’ultima occhiata al computer portatile, afflosciato sul sedile del passeggero, un’introduzione a un articolo sullo sfruttamento dei lavoratori della logistica, scritto per una fanzine di movimento.
Le navi, i treni, i container, l’alta velocità. I tunnel e i passanti ferroviari. La geografia dello spazio che si ridisegna in funzione del trasporto della merce: il nodo decisivo di estrazione del plusvalore nell’epoca in cui tra la produzione e il consumo deve passare il tempo di un click.

Il furgone
L’autostrada scivola veloce sotto le ruote del furgone. Abd è fermo, tutto intorno le cose si muovono, gli passano accanto. Appena arrivato in Italia comincia con la raccolta dei pomodori al Sud, poi il trasferimento al Nord, l’edilizia soprattutto, è qui che viene avvicinato dalla Cooperativa. Non la cerchi tu, arrivano loro.
Muovendosi come uno squalo nelle maglie larghe delle nuove leggi sul mercato del lavoro, appositamente disegnate per lei, la Cooperativa ti assume in termini ultra vantaggiosi – ottenendo per sé sgravi fiscali, sovvenzioni, bonus, dilazioni, finanziamenti – e ti presta a chi vuole farti lavorare senza farti un contratto.
In questo caso Tropical. La multinazionale non ha così alcun dovere, solo il diritto di estrarre plusvalore. La cooperativa, grazie alle nuove leggi, in quanto intermediaria, non ha nemmeno lei doveri, ma usufruisce di tutti i vantaggi dell’avere assunto Abd. Il quale è fottuto. La cooperativa, dopo qualche altro lavoretto nell’edilizia sposta Abd alla logistica, quella zona d’ombra dove il lavoro è regolato da rapporti di forza medievali e manca ogni tipo di controllo, la nuova frontiera dell’oro per ogni organizzazione criminale senza scrupoli.
Nella logistica Abd non incontra molti migranti. Si rende subito conto che la falsa narrazione fa parte di un preciso discorso, far credere che questo lavoro sia per i dannati della terra, non meritevoli di attenzione, tantomeno di tutele, e quindi passabili di essere abbandonati a loro stessi.
In realtà, in questo mondo Abd incontra per lo più italiani massacrati dalla crisi e dalla perdita di welfare e tutele. Non solo poveri, anche l’ex ceto medio impoverito, gente che fino a pochi anni fa aveva una famiglia, una casa, una macchina. E oggi, se va bene, ha solo una macchina in cui vivere.

La Smart
Posti mai visti. Nebbia, fango, trattori, casolari abbandonati. Cataste di maiali sacrificati. Per fortuna il navigatore sa dove andare. Almeno lui. Sara stringe forte la copertina pezzata accanto a sé, da qualche mese è il suo rifugio. Il tentativo di condividere un appartamento con altri studenti e lavoratori non è andato a buon fine, gli orari del magazzino di Tropical impongono sveglie e ritorni nel cuore della notte, trasformandola in un elemento di disturbo.
Sara in pratica passa tutto il suo tempo in macchina, nella vecchia Smart che i suoi genitori le hanno regalato per festeggiare la laurea. Comincia a dormirci per comodità, per pudore nel non voler svegliare i coinquilini. In breve ne fa la sua nuova casa. Risparmia seccature, risparmia l’affitto.
Il magazzino Tropical di Affori, periferia settentrionale di Milano, è un unicum nel suo genere. È riservato agli acquisti Prime Now: da evadere entro un’ora. Non possono passare più di sessanta minuti dal click al consumo, attraverso la scelta del prodotto nel magazzino, lo stoccaggio, il trasporto, la consegna. Altrimenti l’acquisto è rimborsato, e la multinazionale si rivale sul lavoratore. Il magazzino serve principalmente la città di Milano, gli uffici. Il prodotto più richiesto è l’acqua minerale, in bottiglia.
Non si aprono più i rubinetti, l’acqua si compra online e la si pretende entro un’ora dall’acquisto. Questo è il mondo in cui vive Sara.
E così Sara alla vigilia di Natale approfitta di una consegna di cialde di caffè per un ufficio ed esce dal magazzino – su cui campeggia il sinistro motto “Lavora sodo, divertiti, fai la storia”, che risuona sinistro come “il lavoro rende liberi” ma forse è anche peggio – per non tornarci più. L’e-mail che ha ricevuto l’ha convinta subito. Non ha mai fatto politica, non ha mai votato, anzi, una volta ha votato Berlusconi, senza poi davvero pentirsene perché in fondo non ci ha mai creduto.
La decisione di partecipare alla gara non è quindi politica, è esistenziale. Ecco, allora è davvero politica. Sara prende la Smart, guarda Milano, lo skyline di questa città che getta le fondamenta nella provincia e si erge presuntuosa verso il mondo, e le volta le spalle. Una volta per tutte. Verso Castel San Giovanni, verso la libertà.
Il minivan
Il mini van Volkswagen attraversa il ponte sul Po che collega Pieve Porto Morone a Pievetta di Castel San Giovanni. Gli olezzi marcescenti del corso d’acqua invadono l’abitacolo mentre l’ultima traccia trap fuoriesce dalle casse wireless appoggiate sul cruscotto. La meta è quasi prossima. Benji e Fede ce l’hanno quasi fatta.
Oramai, che ci sia una specie di corsa di auto nella bassa padana è di dominio pubblico. Su Twitter è addirittura diventata trending topic.
Capace che anche il Tg1 di mezzogiorno ne dia notizia. Non hanno incontrato molte auto della polizia, ma ci sta, l’estensione del campo di gara è enorme. E il percorso così ramificato da essere incomprensibile, impossibile da prevedere.
A meno che tu non lavori per Tropical, allora diventa tutto più chiaro. Benji e Fede sono a due passi da Castel San Giovanni, quando inchiodano bruscamente l’auto. Aprono gli sportelli e all’unisono balzano a terra, sull’asfalto. Nei loro occhi si accende lo stupore. Qualcuno è arrivato a destinazione, prima di loro. Ha portato a termine il compito. Benji e Fede non hanno vinto ma si abbracciano lo stesso, come facevano da ragazzini sui campi da basket di Corvetto. L’importante è giocare, per sentirsi vivi. Per tornare a vivere. Cosa succederà ora, non è facile a dirsi.

La Twingo
Maria comincia a distinguere la sagoma del distretto industriale di Castel San Giovanni. Lo fa con tutti i sensi, non solo gli occhi. Lo fa ogni giorno, quando con la sua piccola Twingo sta arrivando sul luogo di lavoro e un brivido le percorre la schiena. Otto, nove, dieci ore di lavoro alienante e ripetitivo, senza pause, per non andare sotto il livello minimo di produzione che conduce al licenziamento.
Otto, nove, dieci ore di lavoro senza più fermate neanche per parlare, senza più una casa da abitare, senza più pensare che il lavoro è bello anche se fa male.
Improvvisamente la Twingo frena. Maria scende di corsa, incredula. Qualcuno ce l’ha fatta. Qualcuno è arrivato in fondo alla corsa. Quando le avevano proposto di partecipare aveva subito detto no. Poi ci aveva ripensato, peggio di così non poteva andare, e allora tanto valeva tentare.
Provarci. Un’ultima volta. Maria sorride, poi ride. E non si ferma più. Anche se non è arrivata prima, ha vinto, e lo spettacolo che ha davanti agli occhi è grandioso. Maria non è mai stata così contenta di vedere la sagoma del distretto industriale di Castel San Giovanni, anche perché non l’ha mai visto splendere così.

La Tipo
Non è solo una questione di estrazione di valore dalla forza lavoro. Da quando il valore del trasporto della merce, costretto a raggiungere la velocità istantanea del click della transazione finanziaria, ha superato quello della produzione e del consumo, è mutata l’idea stessa di forza lavoro. Non è più “un pezzo e un culo”, “un pezzo e un culo”, sempre più veloce, come per l’operaio Lulù Massa schiacciato dalla produzione fordista.
È un’accelerazione costante contro un tempo che frantuma e disgrega il corpo senza organi del nuovo operaio. Se prima bisognava ribellarsi alla macchina, oggi bisogna ricomporsi contro l’algoritmo.
È questo che scrive Diego, nel suo articolo per la fanzine di movimento. Non appena si avvicina all’obiettivo, Diego si accorge che almeno uno di loro ce l’ha fatta, che tutti loro ce l’hanno fatta. Preme invio sul pc e ferma la macchina sul ciglio della strada, immaginandosi che intorno a lui in tanti stiano facendo lo stesso. Per un attimo immagina di librarsi nell’aria, sopra il reticolato infinito di strade della megalopoli padana, e intorno a sé vede decine, centinaia, migliaia di auto ferme.
I loro abitanti che osservano rapiti la fine della corsa, un nuovo inizio per i dannati della terra.

Il furgone
L’uscita dell’autostrada per Castel San Giovanni è lì, a un centinaio di metri, quando Abd nota le luci blu. Un posto di blocco. Nel suo derelitto furgone Abd non ha uno smartphone, né una radio. Non sa che oramai la notizia della gara è di dominio pubblico.
Non che le autorità abbiamo ben compreso cosa stia succedendo, ma centinaia di auto che viaggiano per la Pianura Padana, cercando di convergere nel medesimo punto, nell’epoca delle telecamere e degli algoritmi, è un’aporia di sistema facilmente rilevabile.
Abd decide quindi di proseguire, oltre l’uscita, come se nulla fosse. Non sarà lui, il sindacalista migrante che ha organizzato i più importanti scioperi contro Tropical, ad arrivare per primo. Abd si sente tranquillo però, per il solo fatto di aver partecipato alla corsa, sabotato un sistema che va ben oltre il semplice rapporto tra cooperative e multinazionali, ma disegna l’esoscheletro malato del paese.
Non solo di questo, la gara si è tenuta in almeno tredici paesi diversi in Europa e Nord America. Forse di più. E quando Abd, continuando a rotolare sull’autostrada a bordo del suo furgone, in direzione oramai ignota, sente dietro di sé un boato spaventoso e viene investito da un raggio di luce, ride di gusto.

La Smart
Chignolo, Badia Pavese, Pieve Porto Morone. Nomi mai sentiti di paesi mai esistiti.
La megalopoli padana è un reticolato di cellule morte volte a comporre un sistema di produzione, trasporto e consumo che non lascia memorie e ricordi. Delete.
Anche Sara vuole cancellare tutto, o meglio il niente in cui si è trasformata la sua vita: le ambizioni frustrate, le speranze disattese. Le hanno tolto anche solo la possibilità di immaginare un futuro, e quindi la stessa possibile esistenza di un futuro. Non ha più nulla, solo una Smart, in cui oramai dorme, mangia, sopravvive, da mesi.
Quando vede l’enorme parallelepipedo di cemento, sa che sta per fare la cosa giusta. Ci sono altre auto lì intorno, ma si muovono sonnacchiose senza una direzione precisa. Non puntano all’obiettivo. Evidentemente lei è la prima. Forse è merito del navigatore. Sara non ha un dubbio, un’esitazione. Si lancia a tutta velocità verso l’obiettivo.
Una splendida luce bianca la avvolge ancora prima che possa sentire l’impatto, un calore immenso la avvolge, sente il suo corpo precario di donna smembrarsi in mille pezzi e andare a ricomporsi con i frammenti degli altri partecipanti alla gara. Nell’esplosione, Sara riprende in mano la sua vita. E ne fa dono ai precari di tutto il mondo.

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