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ven 19 gennaio 2018

AADHAAR: LA SORVEGLIANZA DIGITALE È ORA

Provate a immaginare un enorme database digitale dove sono raccolti i dati biometrici di oltre un miliardo di persone, legati alla propria identità, all’indirizzo di residenza, al numero di telefono e al conto in banca. Immaginatelo promosso da un’entità statale, “per il bene della popolazione”, con tanto di campagne di sensibilizzazione per la registrazione volontaria. Ecco, è tutto vero, si chiama programma Aadhaar e sta accadendo in India.

Scansione dell’iride e impronte digitali vengono consegnate al governo in cambio di un numero identificativo a 12 cifre, con Quick Response Code (QR Code) abbinato, unico e “inviolabile”, per accedere a servizi di welfare, transazioni via smartphone, acquisti online.
Tutto tracciabile e quindi tracciato, salvato in banche dati mastodontiche dove l’intera esistenza di un individuo, per il governo, è letteralmente a portata di click. Non si tratta di un’anticipazione della prossima stagione di Black Mirror, ma è ciò che sta infine materializzandosi in India sotto le spoglie dell’ambizioso programma Aadhaar (fondazione, in hindi), già noto a livello internazionale come “il più grande database biometrico al mondo”.
Introdotto dall’esecutivo indiano nel 2009 con l’istituzione della Unique Identification Authority of India (UIDAI), il programma Aadhaar nasceva come miglioramento del sistema di distribuzione di sussidi e benefit per i milioni di indiani che vivono in stato di indigenza.
Uomini e donne cui il welfare indiano garantisce l’accesso a forme di assistenza concreta come la possibilità di acquistare cibo a prezzi calmierati presso negozi governativi ad hoc (Public Distribution System Shops), ricevere bombole del gas sovvenzionate dal governo, ritirare la pensione o lo stipendio dei 100 giorni di lavoro nelle zone rurali del paese garantiti dal Mahatma Gandhi National Rural Employment Guarantee Scheme.
I milioni di dollari stanziati dall’esecutivo indiano per sovvenzionare la costellazione di programmi dedicati al welfare degli ultimi sono tradizionalmente decimati dalle incursioni corruttive di centinaia di migliaia di intermediari, spesso funzionari dell’apparato amministrativo, che controllano l’architettura burocratica della previdenza sociale indiana. Chi gestisce la distribuzione delle “ration card” per i cittadini al di sotto della soglia di povertà, e lo fa dietro pagamento di una mazzetta; chi vende i cibi a prezzo calmierato a negozi “regolari”, facendoli risultare come regolarmente distribuiti ai poveri; chi si tiene una fetta dello stipendio o della pensione come “favore” per aver dato accesso a un contadino a ciò che, secondo la legge, gli spetterebbe di diritto.
Incapaci di intervenire con misure drastiche per raddrizzare il trend della corruzione nel paese, la soluzione più immediata è sembrata tagliare fuori i “middlemen”, affidandosi sempre più all’asettica infallibilità matematica della tecnologia digitale.
Basta intermediari, d’ora in poi sarebbe bastato un codice di 12 cifre e il riconoscimento tramite impronta digitale per trovarsi a tu per tu coi propri diritti sociali ed economici.
Man mano che l’adesione al programma Aadhaar, inizialmente volontaria, si diffondeva nel tessuto sociale indiano – con file chilometriche per scansionare l’iride ed entrare finalmente nella “modernità digitale” –, avere quel codice a 12 cifre, ottenuto “gratuitamente” dallo stato in cambio della propria privacy, ha smesso presto di essere un’opzione lasciata alla volontà del singolo.
Da mesi gli operatori di telefonia mobile indiana bombardano i propri clienti con avvisi perentori circa l’obbligo di fornire il proprio Aadhaar Number, pena la disattivazione del servizio. Stesso discorso per i conti correnti bancari, entrati con entusiasmo nell’era digitale del pagamento via smartphone – “la tua impronta è la tua banca!” diceva il primo ministro Narendra Modi – e ora indirizzati verso l’obbligo di registrazione del proprio codice Aadhaar, pena il blocco dell’accesso ai propri soldi.
Si tratta di un’accelerazione verso una digitalizzazione onnicomprensiva delle proprie esistenze che, secondo i detrattori di Aadhaar, nessuno ha né votato né sottoscritto.
Un’imposizione dall’alto che, accentrando una quantità inedita di dati personali sensibili in un solo database, aumenta esponenzialmente il rischio di frode, scambio di identità e “monetizzazione” dei big data da parte del medesimo ente statale che avrebbe dovuto proteggerli. Come spiega Usha Ramanathan a The Quint: «Nella section 57 dell’Aadhaar Act 2016 è esposto in modo chiaro come un cielo blu senza nuvole, che la legge permette a compagnie private l’utilizzo dell’UID (Unique Identification, ndt) per “stabilire l’identità di un individuo per qualsiasi proposito”».
Se è vero che l’era digitale altamente interconnessa in cui viviamo già presenta minacce allarmanti della nostra privacy – dal profiling pubblicitario di Google alle informazioni sensibili che “volontariamente” affidiamo ai social network, mercificate dai fornitori del servizio – la novità inquietante di Aadhaar risiede nella concentrazione di big data in un unico database affidato allo stato dietro garanzia di protezione della propria privacy.
Lo stato o le agenzie intermediarie che gestiscono i dati di Aadhaar di fatto amministrano una miniera d’oro che fa gola al marketing quanto alla criminalità organizzata, e nonostante dal governo abbiano più volte rassicurato l’opinione pubblica circa la totale sicurezza e infallibilità della piattaforma, le falle nel sistema sono già ampiamente documentate.
Solo la scorsa settimana Rachna Khaira, giornalista del quotidiano indiano The Tribune, ha dimostrato come sia semplice bucare i sistemi di sicurezza che proteggono il database di Aadhaar.
Nell’articolo si legge: «Oggi The Tribune ha “acquistato” un servizio offerto da un rivenditore anonimo su Whatsapp che permette l’accesso totale ai dettagli di alcuni Aadhaar number tra gli oltre un miliardo registrati fino a oggi. È bastato pagare 500 rupie (poco meno di 7 euro, ndt) via Paytm (servizio di pagamento istantaneo su smartphone molto diffuso in India, ndt) e dieci minuti dopo un “agente” del gruppo che gestisce il racket ha creato un “accesso” a questo corrispondente, fornendo id e password. Immediatamente, si poteva inserire qualsiasi Aadhaar number nel portale e ottenere tutti i particolari condivisi al momento della registrazione all’UIDAI, compreso nome, indirizzo, foto, numero di telefono e email».
Di tutta risposta, il governo ha aperto un’indagine iscrivendo nel registro degli indagati la giornalista autrice dello scoop.
Commentando la notizia su Twitter, Edward Snowden ha scritto: «I giornalisti che hanno rivelato la falla del sistema Aadhaar meritano un premio, non un’indagine. Se il governo avesse davvero a cuore la giustizia, dovrebbe riformare le politiche che hanno distrutto la privacy di un miliardo di indiani. Volete arrestare i responsabili? Si chiamano UIDAI».
Mercoledì 17 gennaio la Corte Suprema indiana ha esaminato le 27 petizioni inviate alla massima corte indiana che accusano il progetto Aadhaar di incostituzionalità e violazione della privacy del cittadino. Nel frattempo l’obbligo di fornire il proprio Aadhaar number ai servizi di telefonia mobile e alle banche, tra le altre, è stato rimandato dalla stessa Corte Suprema fino al prossimo 31 marzo.
Intanto i giudici indiani avranno la responsabilità storica di pronunciarsi su un meccanismo di sorveglianza statale di dimensioni inedite: una sentenza che farebbe bene a interessare non solo i cittadini indiani.

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