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MONITOR


ven 15 luglio 2016

DOPO BREXIT C’È SOLO UNA DOMANDA: COMPRERESTE ANCORA STERLINE?

Le tantissime analisi che si sono susseguite da quando l’UK ha votato per l’uscita dall’Unione europea ruotano tutte attorno a una semplice domanda: comprereste ancora sterline? Che vuol dire chiedersi quanto si sia disposti ad acquistare asset britannici, reali o finanziari, in un momento in cui nessuno azzarda previsioni sensate sul futuro di quest’economia.

Le tantissime analisi che si sono susseguite da quando l’UK ha votato per l’uscita dall’Unione europea ruotano tutte attorno a una semplice domanda: comprereste ancora sterline? Che vuol dire chiedersi quanto si sia disposti ad acquistare asset britannici, reali o finanziari, in un momento in cui nessuno azzarda previsioni sensate sul futuro di quest’economia. E’ evidente che prospettive negative impattano necessariamente sui flussi di investimenti e quindi sulla valuta, visto che ogni investimento in asset stranieri incorpora, oltre agli altri, un rischio di cambio. Questa considerazione ci riporta alla domanda iniziale, alla quale ovviamente ogni operatore dovrà rispondere. Mentre il nuovo governo inglese farà bene a ricordare quanto la stabilità dell’economia britannica dipenda dagli afflussi di capitale estero.

Questo è uno degli elementi di fragilità dell’UK del quale ha trattato ampiamente il rapporto sulla stabilità finanziaria che la Bank of England ha pubblicato dopo il referendum del 23 giugno. Il report inizia proprio ricordando l’andamento del conto corrente della bilancia dei pagamenti, che ha raggiunto un livello di deficit giudicato alto, sia a livello storico che nel confronto internazionale. “Il finanziamento di questo deficit – spiega la BoE – dipende da continui afflussi di investimenti di portafoglio e di investimenti diretti, che vengono utilizzati per finanziare il deficit del settore pubblico e del settore corporate, incluso il settore del real estate”.

Di nuovo torniamo alla domanda iniziale: questi investitori continueranno a prestare i propri fondi – comprando praticamente sterline – avendo di fronte un periodo che si preannuncia lungo di incertertezza? Ovviamente la BoE non lo sa. E’ perfettamente avveduta, al contrario, del fatto che se ciò non avverrà l’UK si troverà di fronte a difficoltà che sarà sempre più complesso gestire. “Cadute persistenti negli afflussi di capitale – spiega – sarebbero associati con ulteriori pressioni al ribasso sul tasso di cambio e condizioni di finanziamento più serrate per i prenditori UK”.

Il grafico (Chart 7) che misura l’andamento del conto corrente britannico, diviso nelle sue componenti, mostra che il deficit è in costante peggioramento dal 2011 e ha toccato il suo piccolo più basso a fine 2015, quando è arrivato al 7,2% del Pil, rialzandosi poco sopra nel primo quarto 2016 (6,9% del Pil). Il peggioramento drastico da fine 2011 è dipeso sostanzialmente dal crollo dei ricavi sui redditi primari, quindi dei rendimenti esteri degli investimenti britannici, che nell’ultimo periodo si sono parecchio erosi.

Le ragioni che hanno condotto a questo risultato sono diverse, ma ciò che conta è che adesso l’UK ha bisogno di notevoli afflussi di capitale per tenere in ordine i propri conti esteri. Il post-Brexit, quando la sterlina ha sperimentato la sua caduta sul dollaro più ampia dai tempi di Bretton Woods, sembra fatto apposta per alimentare questo timore. Ma per farsi un’idea chiara di quale sarà la tendenza autentica della valuta britannica bisognerà attendere di avere dati distribuiti su un arco di tempo più lungo. Rimane la domanda, appunto, e di conseguenza l’incertezza, che può svolgere effetti assai più dannosi sull’economia britannica persino prima che i deflussi di capitali (eventuali) si manifestino con chiarezza e continuità.

Per avere un’idea di come l’UK stia viaggiando su un crinale assai stretto, basta ricordare (Chart 10) che il paese, a fine 2015, aveva debiti esteri pari al 400% del Pil, oltre la metà dei quali rappresentati da prestiti e depositi bancari (depositi esteri presso le banche inglesi), “con un proporzioni significativa di questi debiti potenzialmente vulnerabile ai rischi di rifinanziamento”.

La fragilità del saldo corrente britannico svolge i suoi effetti, come è logico che sia, in tutto il sistema economico e la circostanza che già dal primo quarto 2016 si sia osservato un calo del 50% del totale delle transazioni con investitori esteri rispetto al trimestre precedente ha già provocato effetti rilevanti in uno dei settori economici più vitali dell’economia britannica: il mercato del real estate commerciale (CRE). Questo mercato negli ultimi anni ha sperimentato “forti afflussi di capitale dall’estero”. Addirittura, “gli investitori esteri hanno pesato circa il 45% del valore totale delle transazioni fin dal 2009”. Questi afflussi sono diminuiti di quasi il 50% nel primo quarto del 2016, ed “è probabile che alcuni di questi deflussi riflettano le incertezze all’avvicinarsi del referendum su Brexit”, ma altri possono dipendere da “aggiustamenti delle valutazioni in alcuni segmenti del mercato, notabilmente quello di Londra”. Dal momento del referendum, nota la BoE, i prezzi delle azioni di alcuni REIT (Real Estate Investment Trust) sono caduti bruscamente, manifestando il rischio di cali ulteriori che “potrebbe amplificare i comportamenti degli investitori più a leva”, ossia coloro che hanno usato maggiormente lo strumento del debito, oltre a diminuire la possibilità per le aziende che usano il mattone come collaterale di avere accesso ai finanziamenti.

Un paio di grafici (Chart 12-13) elaborati dalla BoE raccontano bene quest’epopea. Il primo riguarda l’andamento delle transazioni del mercato CRE dal 2003 in poi, nel quale si nota la caduta nel primo trimestre 2016, quando le transazioni sono diminuite di 6 miliardi di sterline, pari al 34% rispetto al trimestre precedente. Il grosso di questo calo si è registrato a Londra, dove il calo è arrivato persino al 53%, guidato, secondo l’opinione di alcuni partecipanti raccolte dalla BoE, proprio ai timori del referendum su Brexit. E il fatto che le transazioni CRE provenienti dall’estero siano diminuite di 5,1 miliardi di sterline, ossia del 48%, rispetto al trimestre precedente sembra avvalorare tale ipotesi.

Il secondo riguarda i rendimenti, anch’essi in calo costante. I prezzi sono rimasti piatti, nel primo trimestre, dopo essere cresciuti di circa il 40% dal massimo punto di ribasso nel 2009. Ma, al contrario, i rendimenti dalle locazioni sono diminuiti ancora, raggiungendo il livello più basso dai tempi della crisi (il 5,8%). Il rendimento per il settore prime nel mercato londinese sono arrivati addirittura al 3,8%.

Poi si è verificato il Brexit. Dal 23 giugno – data del referendum – al primo luglio le quotazioni dei REIT avevano perso il 13% in meno della base 100 ante referendum, dopo aver toccato un picco minimo sotto gli 80 il 28 giugno. In questo contesto si inserisce la terza fragilità finanziaria dell’economia britannica che la BoE non manca mai di sottolineare nella sua reportistica: l’alto livello di debito delle famiglie. Quest’ultimo, seppure diminuito dal 2008, rimane elevato e questo genera preoccupazioni sulla tenuta della domanda interna qualora questi soggetti economici si trovino, per le ragioni più diverse, a dover dare priorità al servizio dei loro debiti piuttosto che ai propri consumi. Un livello elevato di indebitamento, lo abbiamo visto di continuo in questi anni, non è il miglior viatico possibile per affrontare una turbolenza. I dati raccolti dalla BoE ci dicono che le famiglie inglesi hanno debiti, a inizio 2016, per circa il 130% (Chart 18) del reddito, diminuiti dal picco di 150 del 2008 e tuttavia a un livello ragguardevole

Finora i tassi bassi hanno favorito il servizio di questi debiti, e al tempo stesso hanno favorito un aumento del credito alla famiglie che ha raggiunto il 4,1% nel primo trimestre 2016, il più alto livello dal 2008. Tale larghezza di prestiti è una delle conseguenze del buon credito estero di cui il paese ha finora goduto, che ha messo le banche inglesi nella condizioni di prendere a prestito e di imprestare a loro volta. Ma cosa succederebbe se questo credito si deteriorasse? La risposta più semplice è che la banche residenti dovrebbero stringere la cinghia, e, di conseguenza i loro debitori, ossia queste famiglie, il che, come abbiamo osservato nel nostro paese quando c’è stata la crisi del 2011, può generare una spirale depressiva. In questo caso l’UK non potrebbe far altro che contare su se stessa. Perché l’estero può pure smettere di comprare sterline. Ma i britannici no.

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